Fury Recensione: David Ayer e Brad Pitt non deludono
La cruda violenza per un film di David Ayer equivale all’ossigeno per la Terra, lo sapevamo ben prima di scrivere questa recensione. Fury è proprio così come ce lo immaginavamo: folle, brutale, esplosivo. Non c’è spazio per pivelli senza barba con il terrore di imbracciare un fucile; la Seconda Guerra Mondiale ti costringe a guardare la vita in un modo differente rispetto a quanto sei abituato a vedere, a prescindere dallo schieramento in cui ti trovi.
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Norman Ellison, un dattilografo addestrato a scrivere sessanta caratteri al minuto, ora deve sparare sessanta colpi nello stesso lasso di tempo, se vuole sopravvivere nella realtà in cui viene improvvisamente catapultato. Ayer non lesina niente, ci mostra ogni singolo aspetto di circostanze terribili nelle quali dar di stomaco di fronte ad un corpo esploso su una parete è un lusso che puoi permetterti soltanto il primo giorno di scuola. Anche lo spettatore è obbligato ad abituarsi a immagini così violente, al punto che quasi non ci si accorge dei corpi maciullati sui quali un ignaro carro armato passa imperterrito per raggiungere la sua destinazione.
Brad Pitt è il sergente Don “Wardaddy” Collier, il maestro di vita di un plotone che tiene unito con le sue ferree regole dalle quali non si discosta mai, nemmeno se la morte gli marcia contro.
La suicide-squad 1.0 di David Ayer è un team ben assortito anche dal punto di vista della caratura dei personaggi, elemento per il quale il regista ha sempre mostrato grande attenzione, tracciando un filo immaginario in grado di unirli in un cerchio, nonostante le enormi differenze tra loro. Il merito è suo e del modo in cui sfrutta la guerra, della costrizione a diventare una macchina che deve utilizzare i sentimenti per sopravvivere e non per piangersi addosso, ed ogni personaggio interpreta questo stato d’animo a suo modo. Ayer ci racconta la guerra, quindi, e lo fa con minuzia più estrema. Ancora più dettagliatamente poi ci descrive la guerra dei carristi nei loro cingolati. Il carro armato ci dà l’idea di qualcosa di indistruttibile, un mezzo all’interno del quale ci si sente protetti persino in un campo di battaglia. Una convinzione talmente grande che il regista ci tiene a sottolinearla a sferzate di evidenziatore fluorescente: laser continui, inadatti ma quasi poetici – in pieno stile Star Wars – che escono dalla bocca dei cannoni quando i carri armati esplodono colpi in direzione nemica. E poi basta una mina a stroncare questo senso di rifugio o di potenza, e a fermare un’avanzata. Il trionfalismo e lo spirito nazionalista made in U.S.A. è un aspetto che non può mancare, perché ad Hollywood è un marchio di fabbrica, e se fai un film del genere non puoi non porre risalto sulla gloria dei vincitori, a patto che tu non voglia finire a scrivere plot per documentari dimenticati dallo Zio Sam. Eppure il cineasta dell’Illinois è maestro persino in questo, perché nessuno è meno sporco di sangue di un altro, ma “gli ideali sono pacifici, è la guerra che è violenta”. David Ayer è ormai lo specialista dell’azione brutale, e Fury è un manifesto decisamente perfetto della sua logica filmica, per cui se una volta entrati in sala siete rimasti insoddisfatti, avreste dovuto guardare il tempo prima di uscire senza ombrello. La legge del cinema non permette ignoranza; quella di Ayer meno che mai.