L’industria del videogioco pensa e parla di se stessa molto più di quello che ci può sembrare
Le nomination, i premiati, gli annunci e le sfilate promozionali ormai hanno ben più che il solo valore di supporto al prodotto finale. Sono ormai decenni che le campagne pubblicitarie, prima più di oggi, e gli eventi collaterali hanno perso la loro percezione (erronea, ma ci arriverò ndr.) di semplici showcase e sono diventati a tutti gli effetti un prodotto dell’industria equiparabile (per valori produttivi, investimenti ed eco) al resto e che va quindi considerato come tale. La comunicazione di e sul videogioco, quindi, realizza su di se quel che da sempre vive nelle teorie dei discorsi sulla marca: non un contesto di sostegno, ma una vera e propria offerta supplementare a quella che viene considerata predominante. In parole povere si concretizza l’idea che chi produce videogiochi ha di quest’ultimi e, di conseguenza, dell’imbastitura del dialogo triangolare tra industria, pubblico e critica. I The Game Awards del 2021, per esempio, sono solo l’ultimo esempio a cui ci si può appoggiare per comprendere appieno questa conversazione multilaterale.
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Proprio riferendoci ai cosiddetti Oscar del videogioco trovo piuttosto emblematica la descrizione fornita sul sito ufficiale dell’appuntamento che ogni fine anno polarizza le discussioni in tutte le parti del mondo (sia perché rappresenta un riepilogo effettivo di quel che è stato un dato periodo, sia per le prospettive future rappresentate da trailer e annunci). Leggiamo infatti che The Game Awards è “fondata dall’imprenditore dei media Geoff Keighley” (connotandola dunque come azienda a tutti gli effetti) e che al suo interno partecipano con delegate e delegati nel consiglio di amministrazione tutti i nomi più importanti che ruotano attorno al videogioco. Una dichiarazione d’intenti che, unita a una giuria composta da una fetta piuttosto sostanziosa e importante della critica a livello mondiale con delegazioni da ogni parte del globo, può farci capire come la comunicazione e la celebrazione di un dato prodotto sia di fatto non soltanto un contesto critico ma anche e soprattutto un fattore di investimento importante da parte di chi il videogioco lo produce. Valutare e comunicare l’imprenditoria diventa dunque imprenditoria stessa, un momento in cui il dialogo e il premiare diventano merce di scambio e da prendere in considerazione come tutte le altre – fondamentali – note di bilancio.
Senza fare allusioni a improbabili complotti o riferendomi a un “commerciale” che lascia il tempo che trova è però evidente il carattere di questo tipo di operazioni (a cui ovviamente vanno aggiunti eventi come GamesCom, E3 e GamesWeek). Non semplici eventi in cui mostrare e mostrarsi, dialogare e dibattere ma veri e propri punti di investimento. Il supporto, come ho già detto, è anch’esso prodotto e parla prima di tutto di come chi produce vede sé e ciò che ha intorno. Quello che appare solo come un legittimo terreno di confronto e di apertura verso il pubblico nasconde al suo interno una rete di calcoli e previsioni che servono per orientare il pubblico, creare in loro aspettativa e quindi portare senso agli investimenti. Quando commentiamo, anche duramente, annunci, premi e celebrazioni dobbiamo sempre ricordarci cosa quel dato appuntamento rappresenta per chi decide di proporli: fondamentalmente guadagno a lungo termine ma anche e soprattutto connotazione di quel che chi realizza pensa di ciò che fa e del mercato a esso collegato.
Di generi e di esclusioni: il tono che il videogioco vuole per se stesso
Negli anni, con il culmine arrivato questa settimana con l’esclusione di Forza Horizon 5 dalla rosa che compone i nominati per il Game of the Year (il premio più prestigioso della kermesse), si è molto dibattuto su come e quali giochi venissero scelti per essere giudicati come migliori di un dato anno. Per quanto sia legittimo mettere in discussione le scelte fatte in qualunque caso e in qualunque ambito trovo che – spesso – le ragioni avverse al The Game Awards manchino comunque il punto che davvero andrebbe affrontato. Più che lamentarsi della mancanza di una nomination o che il premio venga dato a un titolo anziché a un altro a cui si tiene particolarmente ci si dovrebbe interrogare sui perché di quelle scelte. Come abbiamo già avuto modo di vedere insieme nei paragrafi precedenti, infatti, all’interno della board che si occupa del premio ci sono delegazioni di tutte le software house più importanti e influenti sul mercato videoludico mondiale e ipotizzare un favoritismo è uno scenario piuttosto miope, sebbene non totalmente errato.
Il ragionamento, dunque, dovrebbe essere più orientato al comprendere quale visione del videogioco in quell’anno specifico l’industria vuole dare di sì, piuttosto che erigere fazioni contrapposte in un contesto che di fatto è dall’alto e distribuito al pubblico direttamente da chi i videogiochi li fa. La decisione di tagliare fuori un genere in modo assoluto, come accade da sempre per i titoli sportivi e di corse relegati a un premio ad hoc, dalla lotta per il migliore dell’anno ci dà un netto dato su come oggi l’industria vuole che venga considerato il videogioco (e di fatto riesce in questo intento). La spinta netta e sensibile sul dare importanza al contenuto narrativo e al contesto di blockbuster con una storia e un potenziale empatico ci racconta moltissimo di come si comunica su e per il videogioco. Questo è, per chi vi scrive, l’angolo da cui va interpretato il fenomeno e non in un processo di qualità oggettiva: perché in un contesto in cui è la stessa industria a parlare di se stessa è impossibile farlo.
Discorso questo che viene ancor di più accentuato se andiamo a scandagliare le categorie al di fuori di quella principale, dove il videogioco viene racchiuso per generi. Tra queste – per motivi di interesse personale – mi preme discutere quella che riguarda le produzioni più piccole che ai The Game Awards vengono descritte come indie games. Negli anni ci sono state produzioni di differenti valori produttivi, tematiche e intenzioni ma mai come quest’anno viene fuori quanto per l’industria del videogioco – e di conseguenza anche per critica e pubblico – il videogioco indipendente ormai più che un indice di come sia stato prodotto un titolo rappresenta un genere a tutti gli effetti, riducibile a qualche caratteristica che va oltre il significato vero e proprio di indipendenza. Notare che tutti i giochi nominati fanno capo a realtà decisamente più grandi dello scantinato polveroso che normalmente si immagina per queste produzioni – con Kena che addirittura ha alle sue spalle il contributo diretto di Sony – ci permette di comprendere come vengono intese. Non giochi che davvero forniscono un’alternativa di mercato ma produzioni semplicemente più piccole che rientrano nella stessa logica.
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In conclusione, The Game Awards è semplicemente il modo che ha l’industria di costruire da sé la percezione che pubblico e critica hanno del videogioco. In sette anni di vita, e anche con le precedenti produzioni di Keighley, le categorie si sono modificate per assecondare i cambiamenti che non solo stavano e stanno avvenendo ma soprattutto per comunicarli. È successo nel precedente premio gestito dal suddetto con l’eliminazione dei premi divisi per piattaforma e sta succedendo tutt’ora con l’esclusione di certe categorie o il proporre alcuni giochi sotto un cappello unico. Il videogioco ha un tono preciso, che arriva da chi li produce e modifica irrimediabilmente la percezione di chi ne gioca, ne parla e ne vive.