Gemini Man tenta l’all-in con la carta della tecnologia, ma la delusione è a tre dimensioni
Il topos del doppio e del gemello da sempre affascina spettatori e lettori. In età classica Euripide e Plauto estasiarono con i loro versi. Poi fu la volta di Shakespeare, di Goldoni, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” e infine Pamuk e Saramago. Modi diversi di dipingere l’altro sé e la duplicazione dell’io. Anche la filosofia, la psicologia e ovviamente il cinema hanno mostrato un costante interesse per questo affascinante e allo stesso tempo perturbante tema.
Nel 2019 arriva Gemini Man a dare il proprio contributo alla “causa gemellare”, lanciando nella fitta coltre dell’annosa questione diversi nuovi quesiti. Quali sono i limiti e i vantaggi della clonazione? Un clone è in tutto e per tutto una copia di un essere umano, carattere compreso?
Ma le domande che Gemini Man fa non si fermano al tema del doppio. La pellicola di Ang Lee osa soprattutto nel campo dell’innovazione visiva e tecnica, portando il 3D ad una nuova, presunta era. La visione dell’avvenire e delle infinite potenzialità dell’apporto tecnologico hanno mutato cinema fantascientifico e buona parte del genere action, portandolo ad un livello di realismo quasi tangibile. Lee da sempre ha percorso questa strada, tentando di dare un contributo all’evoluzione tecnologica della settima arte.
Ma non è questo il caso.
Gemini Man: Will Smith al quadrato
Il primo Will Smith che vediamo in azione è Henry Brogan, un assassino professionista, assoldato dal governo e ormai prossimo al crepuscolo lavorativo. Dopo anni di efferati omicidi, partecipazione a tutte le guerre più sanguinose del mondo e un arsenale da far impallidire Duke Nukem, la quota cento è arrivata anche per il fu principe di Bel Air.
Le cose ovviamente non vanno come previsto. Quando Brogan sta già per pregustarsi le attese alle poste, il ciclismo in TV il pomeriggio e i cantieri osservati in prima fila, ecco arrivare il classico giovane guastafeste. A causa di ripercussioni poco felici del suo ultimo lavoro sporco, Henry da predatore si ritrova per la prima volta nei panni della preda. L’ex capo Clay Verris (Clive Owen) infatti vuole a tutti i costi la morte di Brogan, che ha scoperto troppe verità scomode.
Ed è in quel momento che Verris invia il proprio uomo più forte a caccia del protagonista: il giovane clone di Brogan, chiamato “fantasiosamente” Junior. Il soldato mercenario è in tutto e per tutto la copia del personaggio interpretato da Will Smith: stesse abilità nel combattimento, identico modo di pensare e agire, con l’unica differenza di età. Junior ha solamente 23 anni. E questa è la maxi-storia di come due vite sono cambiate.
La Tigre e il Clone
L’eclettismo ha portato Ang Lee ad approcciare nella sua carriera registica i generi più disparati: dal’ottimo contributo al wuxia, tanto in voga ad inizio millennio, con La Tigre e il Dragone al delicato dramma sentimentale I segreti di Brokeback Mountain, passando per il proprio apporto ai cinecomic con l’acerbo Hulk e l’acquerellato surrealismo de La Vita di Pi. La costante del regista taiwanese è il ribaltamento continuo della sua cifra, stilistica, tecnica e narrativa. Il cineasta, vincitore di ben due premi Oscar, non ama soffermarsi e adagiarsi sui suoi successi e la sua visione di cinema è in continuo cambiamento ed evoluzione.
Proprio questa predisposizione alla sperimentazione di nuovo canoni e processi produttivi, legati alla tecnologia, hanno avvicinato Lee al progetto Gemini Man.
Può essere definito progetto proprio in virtù della lunga genesi che ha portato alla realizzazione del film. La pellicola è stata ideata infatti nel lontano 1997 dallo sceneggiatore Darren Lemke, scrittore di Shrek e vissero felici e contenti e Piccoli Brividi. L’idea della creazione al computer di un giovane clone al tempo fu accolta con entusiasmo da parte della Disney, che aveva preso subito in carico la produzione della pellicola. Per supportare e foraggiare questo innovativo progetto cinematografico, fu realizzato un cortometraggio chiamato “Human Face Project”, diretto da Hoyt Yeatman e presentato al SIGGRAPH 2002. Stupore e grandi aspettative per l’imminente futuro accolsero l’opera griffata Disney. Ma finì lì.
La tecnologia del duemila aveva fatto passi importanti verso la pulizia e fluidità visiva a cui siamo abituati oggi, ma non bastava allora per supportare Gemini Man.
La pellicola fu rilegata nella soffitta dei progetti mai nati per più di un decennio. Poi nel 2016 la Skydance acquista dalla Disney il progetto e Jerry Bruckheimer si unisce nelle vesti di produttore. Nell’Aprile del 2017 viene finalmente scelto il regista: sarà Ang Lee, che già con La Vita di Pi aveva idolatrato la CGI nell’altare degli effetti speciali.
Negli anni l’abitudine al digital de-aging ha ridotto lo stupore iniziale: Brad Pitt in Benjamin Button, Micheal Douglas in Ant-Man, Johnny Depp dei Pirati dei Caraibi e Robert Downey Jr e Samuel L Jackson in Civil War e Captain Marvel sono l’esempio lampante. La Computer Generated Imagery si trasforma nel ribaltamento digitale del ritratto di Dorian Gray e la motion capture, la performance capture e la facial motion sono la versione moderna del sacro Graal.
Gemini Man eredita un bagaglio tecnico incredibile e lo applica egregiamente nel ricreare un credibile Will Smith in versione young. Ad aumentare il tasso tecnologico del film si unisce la scelta di Lee di filmare e proiettare la pellicola in HFR (High Frame Rate a 120 fotogrammi al secondo, rispetto ai canonici 24). Il 3D+ sottolinea la copresenza della tridimensionalità e dell’HFR e palesa il desiderio di Lee di rivoluzionare l’estetica del cinema digitale.
Fuori dal tempo e dallo spazio
L’approccio grafico innovativo, la delicata e profonda questione del doppio e la clonazione, la presenza scenica di Will Smith. Tutto sembra gridare al capolavoro, al film capace di rinnovare ex novo il genere action. E invece nulla funziona.
Il 3D ha vissuto un momento florido in concomitanza con l’uscita di Avatar, che ha toccato il picco più alto di questo modo di fruire la settima arte. Da quel momento in poi le tre dimensioni, nonostante il loro fine, sono sempre risultate piatte, incapaci di dare quel quid d’intrattenimento e immersione narrativa.
Gemini Man sfrutta il 3D nel suo grado più alto, cercando di riprodurre la realtà nei suoi contorni più veri e vividi. Il risultato tocca vette di realismo così artefatte da ricreare luci ed immagini in movimento del tutto irrealistiche e difficilmente fruibili dall’occhio umano. L’effetto visivo è paragonabile ai filmati demo delle TV esposte delle grandi catene di elettrodomestici. Quelli messi appositamente per mostrare le potenzialità tecniche dei televisori al massimo. Spesso sembra di assistere ad una cutscene di un videogioco low budget piuttosto che a un film, con attori veri: colori sbilanciati, scarsa fluidità e una fisica ben lontana dalla realtà.
Al tentativo mancato del raggiungimento di un appagante iperrealismo, si aggiungono evidenti difetti a livello di scrittura. Il film soffre i paletti in cui era imprigionato il cinema anni novanta, periodo in cui è stato concepito.
Il genere action ha avuto un’evoluzione e il recente Mission Impossibile: Fallout è il modello esemplificativo di come il genere abbia subito un processo di rinnovamento e allontanamento dagli stereotipi della filmografia macho del secolo scorso. Cliché che in Gemini Man riemergono prepotentemente: personaggi al limite del macchiettistico, intermezzi forzati (le scene in aereo su tutte) e una linearità prevedibile nello sviluppo della trama. Le premesse avrebbero meritato uno sviluppo e profondità di sceneggiatura di altro e ampio respiro. E invece non si esce vivi dagli anni novanta, trasmettendo un senso di spaesamento temporale ed espositivo.
Non bastano tre dimensioni per conquistare quella più importante: la dimensione dello spettatore.