O del tentativo di leggere il nuovo Genesis Noir come riflesso de Le Cosmicomiche di Italo Calvino
Breve postilla introduttiva: il collegamento fra Genesis Noir e Le Cosmicomiche di Italo Calvino non è nato per caso. Anzi, viene esplicitato con chiarezza dagli stessi sviluppatori che ne parlano come una delle principali fonti di ispirazioni dietro alla realizzazione di questo lavoro. D’altra parte, le affinità di pensiero e di struttura (epistemologica e narrativa) balzano immediatamente agli occhi e permettono un’immersione in questa materia cosmica alla ricerca dei segnali luminosi che possano delineare i punti di contatto e quelli di divergenza. A sostegno di questa relazione dialogico-creativa, utilizzeremo i dispositivi culturali offerti dall’arcipelago Post-human in modo da far esplodere i processi ibridativi che soggiacciono dietro e dentro i due medium.
Un passo in avanti per farne due indietro: prima di entrare nel merito della questione appena posta, è bene riassumere i tratti caratteristici di Genesis Noir cercando di rimanere fedeli alla consuetudine della critica informativa videoludica. Vale a dire piegare Genesis Noir, titolo d’esordio di Feral Cat Den disponibile da qualche giorno su PC, famiglia Xbox (tramite Game Pass) e Nintendo Switch, al classico sezionamento “recensorio” per apprendere se vale veramente la pena giocarlo oppure no (ve lo diciamo subito: sì). Un compito piuttosto semplice a dire il vero: basta scomporlo, sezionarlo appunto, analizzarlo punto per punto e giungere a un giudizio di valore.
Ad esempio, possiamo iniziare dalla natura base del gioco: ovvero dalla sua appartenenza, in una chiave estremamente semplificata, al genere delle avventure grafiche punta e clicca. Quello che ci troviamo di fronte, allora, non è altro che un’esperienza audio-visiva interattiva in cui le meccaniche (se proprio sentiamo l’esigenza di doverle classificare come tali) di gameplay a nostra disposizione sono estremamente limitate e diventano i soli strumenti con i quali possiamo interagire con l’ambiente circostante per procedere nel nostro viaggio cosmico.
Attraversare questi micro-quadri, vere proprie sequenze narrative, non richiede impegno o il superamento di sfide complesse, solo pazienza e volontà di scoprire cosa accadrà nel prossimo scenario. Suggerendo, a volte, che l’intuito agisce in modo migliore di input basati su un sistema logico di relazione causa-effetto. Le possibilità ludiche, di conseguenza, sono sacrificate sull’altare di un percorso prestabilito e le semplice azioni che possiamo compiere sono la sola spinta che avvia e tiene in movimento il motore di eventi bizzarri e stordenti il cui senso effettivo è un flusso difficile da imbrigliare e contenere. Una precisa scelta di design, che non disdegna momenti di attese (o anche di effettiva noia) e di ciclica ripetitività, portata avanti con coraggio e senza sconti di sorta. D’altra parte, fuor di metafora, è proprio il giocatore che premendo il tasto start permette il farsi di ogni cosa dentro e fuori questi mondi immaginari.
Va da sé che la varietà appartiene al resto: alla scenografia, che scontorna i vari livelli in frammenti di tempo e spazio in cui la circolarità ci permette di muoverci quantisticamente in una pre-storia universale e cosmica, umana e non-umana insieme e, contemporaneamente, in ambientazioni cittadine che richiamano gli archetipi del noir, fra clacson, voci, arabeschi di fumo, fiumi di alcol e losche figure; all’estetica che, intreccio di linee essenziali bidimensionali in uno spazio tridimensionale, tinta di bianco e nero si lascia intaccare da sfumature dorate (una corruzione cromatica che è un indizio per un futuro esplosivo) per una rappresentazione suggestiva, mai banale e ipnotizzante nel suo con-fondere lisergicamente e sinesteticamente lo spettatore; alla musica: un tappeto sonoro che fonde jazz, blues a esotismi fusion, in grado di amalgamare magnificamente, persino nei suoi silenzi, la messa in scena e scandire in un ritmo sincopato il muoversi della trama e a suggerire romanticamente l’eco della radiazione di fondo come voce dell’universo che tutto circonda e avvolge: un’orgia sensoriale che consolerà in un caldo abbraccio.
Le voci che partecipano e abitano l’universo di Genesis Noir, che è il nostro universo ma è anche un altro universo, un universo di prima o di dopo, sono confuse, stonate, rumorose, bianche. Però a tratti cambiano, per farsi dolci, perentorie e liberatrici. Sconfessano un destino che crediamo predeterminato e nel loro insieme, come formule magiche, ci aprono al libero arbitrio delle infinite scelte possibili: mai errate e, soprattutto mai obbligate, seppur lineari e ricorsive.
In questo brusio indistinto, si fa No Man, un piazzista di orologi che è anche un musicista e un essere preternaturale, una creatura divina non-umana dai tratti umanizzati fortemente caricaturizzati. È lui il protagonista di questa storia, un viaggiatore cosmico il cui obiettivo è salvare la creatura che ama: Miss Mass, una cantante jazz, che sta per essere uccisa da un colpo di pistola sparato da Golden Boy. Un triangolo amoroso su scala galattica: il proiettile esploso, infatti, altro non è che il Big Bang, evento imprescindibile a cui nessuno sembra voler porre rimedio. Solo No Man, preoccupato per l’ineluttabile morte di Miss Mass, tenta in tutti i modi di scongiurarne la realizzazione e arriva a congelare il tempo per viaggiare all’interno della scia lasciata dal proiettile: una sorta di arazzo cosmogonico in cui l’Universo è scomposto in bolle temporali che fungono da portali per accedere a ogni suo attimo.
Qui inizia la nostra storia, la nostra l’indagine che ci porterà nelle pieghe del tempo (dagli infinitesimi secondi dopo il Big Bang, al Brodo primordiale, all’abbandono della Terra da parte dell’umanità del futuro) alla ricerca di tutti gli indizi utili al nostro scopo… tentare di fermare il Big Bang!
Tra coloro che credono che esista solo il linguaggio, o solo il pensiero umano […]. Io credo che esista una realtà e che ci sia un rapporto (seppur sempre parziale) tra la realtà e i segni con cui la rappresentiamo. La ragione della mia irrequietezza stilistica, dell’insoddisfazione riguardo ai miei procedimenti, deriva proprio da questo fatto. Io credo che il mondo esiste indipendentemente dall’uomo; il mondo esisteva prima dell’uomo ed esisterà dopo, e l’uomo è solo un’occasione che il mondo ha per organizzare alcune informazioni su se stesso. Quindi la letteratura è per me una serie di tentativi di conoscenza e di classificazione delle informazioni sul mondo, il tutto molto instabile e relativo ma in qualche modo non inutile (I. CALVINO, Una pietra sopra, in Saggi, I, p. 237).
Sorretto da un variegato insieme di stimoli, suoni, divergenze, posizioni defilate e contraddittorie, il Post-human è un mantello screziato che ricopre un’idea partecipativa e relazionale dell’uomo. Così accade in Italo Calvino e, di riflesso, ne scorgiamo dei residui, delle tracce anche in Genesis Noir; i quali, rifiutando essenzialmente l’inumano e l’antropocentrismo riconducono la loro ricerca espressiva allo studio di eventi-creature “altre”, potenziate e potenziabili da una fertilità creativa che nutre il mondo circostante; una ricerca che può darsi in una forma di antropologia del caso-percaso, la cui realizzazione si ricalibra continuamente assecondando gli stimoli, le situazioni, gli agenti umani e non-umani, che partecipano alla sfera di relazioni e interazioni fra essere umano e natura.
Il tutto per dimostrare le modalità attraverso cui le parole si pongono secondo un’ottica decentrata rispetto all’egemonia del soggetto e dell’io umano come focus centrale e magnetico del discorso narrativo e arrivino, invece, a comporre un mosaico come un amalgama di esseri ed eventi, specchio di una realtà combinatoria (al principio della costruzione narrativa come stratificazione di un linguaggio di programmazione in grado di compilare il codice conoscitivo del reale e renderizzarlo su un supporto intellegibile) complessa e dialettica.
Questa contaminazione fra le parti, questo assemblaggio incompleto, la cui continuità manchevole cede all’emergenza dei micro-vuoti di cui è composta, è ben rappresentata dalla porosità della superficie che identifica l’essere umano come risultato di plurime addizioni irregolari e non binarie. Possiamo immaginarcelo, per essere più chiari, come una sorta di spugna mobile. O di essere filiforme scontornato solo dalla sua stessa sagoma. Lo stesso Calvino, in uno scritto del 1982 intitolato Il cielo, l’uomo, l’elefante, riferendosi a Plinio il Vecchio e alla sua Naturalis Historia, afferma che «il genere umano è una zona del vivente che va definita circoscrivendone i confini […]. Tali confini, tuttavia, sono negoziabili sia sul piano naturale che su quello sociale, e ciò non riguarda solo il caso degli insospettabili legami di parentela che uniscono “spiritualmente” l’umano con i “reliqua animalia, […] gli altri esseri animati» e che «anticipando quanti tra gli antropologi moderni sostengono una continuità tra l’evoluzione biologica e quella tecnologica, dagli utensili paleolitici all’elettronica, Plinio implicitamente ammette che le aggiunte apportate dall’uomo alla natura entrano a far parte anch’esse della natura umana». È un’ammissione fondamentale per legare le istanze Postumane all’idea che Italo Calvino e Genesis Noir con lui, hanno dell’essere umano: quella di un incrocio, un “essere ibrido”, la cui evoluzione poggia su un continuo movimento fatto di scambi, di ritorni, di concessioni all’uno e all’altro lato. Laddove un effettivo lato non esiste in quanto confine invalicabile, poiché la sua natura è anche nella non-natura, nel raccoglimento degli opposti, nella non (de)finitezza, ma come parete tarlata i cui punti luminosi non sono mai certi ma continuamente rivisti e ricalibrati.
La pubblicazione de Le Cosmicomiche (insieme al successivo Ti con zero e agli altri racconti cosmicomici), rappresenta il punto di partenza dell’avventura cosmicomica di Italo Calvino e quindi delle successive influenze relazionali che possiamo rintracciare in Genesis Noir. Anche qui, come in Calvino, il racconto ci insegna il valore del paradosso e della reversibilità come doni che che ci costringono a un continuo corso e ricorso della storia. Non solo: ci fornisce l’esempio di un’immaginazione come mezzo per ottenere una conoscenza extra-individuale.
Io vorrei servirmi del dato scientifico come d’una carica propulsiva per uscire da abitudini dell’immaginazione, e vivere anche il quotidiano nei termini più lontani dalla nostra esperienza (I. CALVINO, Presentazione, in La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, Mondadori, Milano 1997, p. VI).
D’altra parte: la storia contiene infinite ibridazioni fra esseri sconosciuti, non-umani e altri, e l’arte combinatoria che mescola racconto come mito e scienza, che utilizza il dato scientifico (a livello strutturale è uno degli aspetti che più di tutti accomuna le due produzioni, vale a dire la struttura narrativa che presenta come introduzione, spiegazione ed esergo, un testo scientificamente esatto, se può passare la definizione) come enzima creativo e base dell’atto narrativo in sé. Uno scheletro inchiostrato la cui strategia narrativa, ironicocomica (poiché lo status di verità introdotto dall’ipotesi/teoria scientifica viene degradato sciogliendosi su di uno sfondo comune antropomorfizzato e quotidiano – anche se la parodizzazione, e quindi il suo risvolto “comico”, è meno evidente e centrale in Genesis Noir rispetto a Le Cosmicomiche), viene ribaltata per estensione, come uno strappo mai arrivato, in scenari sospesi fra il possibile e l’impossibile.
Rivolgersi al cosmo, dunque, per scappare da ogni teologia umanistica e orientare l’umano attraverso una realizzazione che affronta un caos privo di punti di riferimento e di consolatorie (e narcisistiche) attribuzioni di identità. Il cosmico e il comico, insomma, presi nel loro brusio partecipato, vengono investiti di un compito rivolto a demitizzare assunti quali l’Universo e l’antropocentrismo.
Sicché la denuncia Postumana di Italo Calvino che ritroviamo (parzialmente) in Genesis Noir, è un invito ad assumere nuove posizioni per varcare la soglia di esiti inaspettati e contorti che potrebbero affiorare da un momento all’altro. Nella sua indifferenza materiale alle forme e agli stati che assume, all’essere singolare o collettivo, Qfwfq (il protagonista de Le Cosmicomiche) è l’incarnazione di ciò che il Post-human chiama “creatura” e che Donna Haraway chiama critter: un essere materiale la cui caratteristica è di essere non identico a se stesso e significativamente attivo. E anche se questo non accade per No Man, che nel suo stato divino-non umano rimane sempre “se stesso”, è vero per altre creature-personaggi che incontreremo più avanti nel gioco. Situazioni che si presentano, proprio perché siamo in presenza di un processo in cui lo sdoppiamento, la moltiplicazione e complicazione della realtà circostante, lambiscono il senso dell’atteso-inatteso divenire, che si articola come un circuito di specchi che riflette un lembo di futuro nella fodera di un passato impalpabile eppure sempre presente. La realtà, in breve, si accartoccia su se stessa e la linea del tempo perde di significato.
E se è vero che la «memoria non si sfama mai», la necessità insita nel riprodurre copie, coppie e altre alterità di e da noi, è un destino di co-relazioni e di co-esistenza che si fa necessità. L’algoritmo narrativo, infatti, processa nuove istruzioni e le compila per realizzare quella libera metamorfosi dei corpi a-normali sposata dal Postumanesimo: un intreccio totalizzante («dove linguaggio e coscienza, memoria e amore emergono da gorgoglianti oceani di materia, i personaggi sono e diventano tutte le cose» S. IOVINO, op. cit., p. 134.) in cui Italo Calvino e Genesi Noir, fra rimandi e distanze, continuano a parlare attraverso i loro personaggi-creature-ibridi il linguaggio umano della seduzione e dell’erotismo. Accade questo perché la loro emancipazione Postumana passa continuamente attraverso un particolare uso dell’antropomorfismo, con il preciso scopo di evidenziarne la porosità cava e imperfetta e ricordare che «in un universo dove ogni cosa è linguaggio, anche la morte è un’emergenza semiotica che infrange continuità solidificate e prepara a future ricombinazioni» (Ibid.). E sappiamo benissimo quanto l’avvento (e l’esistenza in sé) della morte sia un evento fondativo in Genesis Noir.
Rassicuriamo, dicendo che Italo Calvino, con questo canone cosmicomico e Genesi Noir, con questa storia d’amore non-umana persa nello spazio, non vogliono derubricare con superficialità l’umano dallo spazio-orizzonte dell’esistenza: il loro non è uno strizzare gli occhi per elidere poco a poco ogni modello di umanità; ma, al contrario, un gettare corde e lacci verso tutto ciò che è straniero, diverso, lontano da noi. Uno sforzo intellettuale, letterario e videoludico alla ricerca di tutti i grimaldelli utili all’interpretazione di un reale mai così complesso.
Ma è successo che poi scrivendo mi è venuto da seguire la via opposta, con dei racconti che sono una specie di delirio dell’antropomorfismo, dell’impossibilità di pensare il mondo se non attraverso figure umane, o più particolarmente smorfie umane, borbottii umani. Certo, anche questo è un modo di mettere alla prova l’immagine più ovvia e pigra e vanagloriosa dell’uomo: moltiplicare i suoi occhi e il suo naso tutt’intorno in modo che non sappia più riconoscersi (I. CALVINO, Una pietra sopra, in Saggi, I, p. 234).
A conti fatti, Genesis Noir è un racconto videoludico de Le Cosmicomiche, un’appendice virtuale che ne rispecchia gli ideali di fondo; un’avventura tutta narrazione, immagini e musiche, che sprigiona meraviglia e stupore, che gela i nervi nelle sue enormità siderali ed emana un disorientamento spiazzante: come si può afferrare un significato così contorto e confuso, tale da scomparire non appena compare? Un testo digitale, interattivo, immobile ed elettrico allo stesso tempo, immaginato da Italo Calvino e incarnatosi binariamente in un involucro in bianco e nero che danza a ritmo di jazz. Ma vertiginoso e psichedelico qual è, Genesis Noir è anche un titolo che cade vittima di queste sue scelte anti-ludiche e di questa sua passività immersiva: impossibile non accettare che, per qualcuno, possa risultare stucchevole, abbozzato in termini di ritmo e sporco per via di un codice ancora da perfezionare.
Tuttavia, e lo scopriremo decidendo di proseguire, l’imprevedibilità è quel tassello fondamentale che ridefinisce e ri-orienta continuamente l’esistenza che ci circonda, ricordandoci l’inumano nel nostro umano esserci; e, specialmente, la rilevanza dell’amore come nota universale che ci attraversa ma non è confinata esclusivamente dentro di noi (un mandala finale ci ricorderà anche questo).
La nota finale, di nuovo, emette la costante certezza che l’antropocentrismo è una posizione da superare per scoprire l’altro da noi: per ascoltare una melodia di puro e vibrante jazz-cosmico. Per accogliere un senso morale e poetico, che, instancabilmente, si fa chiarezza d’intenti e bussola da cui e su cui orientare le nostre posizioni intorno alle numerose incertezze (schiacciati dal giogo della post-verità e della post-ironia) a cui andiamo/stiamo andando incontro. In fin dei conti, per partire, e ripartire, da un noir come genesi di molte cose.