Ghost in the shell è uno di quegli anime, e uno di quei manga, ormai entrati nel bagaglio culturale di molti. Abbiamo deciso si dedicargli questa analisi, per cercare di mettere in risalto l’importanza dell’opera.
[…] Potrei dire che anche il vostro DNA non è altro che un programma di autoconservazione. La vita è come un nodo creatosi nel flusso dell’informazione. La specie umana utilizza un sistema di memoria chiamato “geni”, e acquisisce la propria individualità dai ricordi che racchiude. Anche ponendo che tali memorie possano essere paragonate a “illusioni”, è comunque grazie ai ricordi che esiste l’umanità. Quando la diffusione dei computer rese possibile esportare la memoria, avreste dovuto pensare molto più seriamente a ciò che avrebbe significato.
(Il Burattinaio – Ghost in the Shell)
Ciclicamente si torna a parlare di Ghost in the shell, dedicandogli analisi su analisi o semplicemente prendendo posizione per l’ultima reinterpretazione dell’opera. Così è stato per il live action, per Stand Alone Complex, per Arise e per l’ultimo esperimento in CGI di Netflix. Quello che non cambia però è il nucleo del franchise, a cui dedichiamo questa analisi.
Questo perché Ghost in the shell non è una serie, ma un gruppo di opere che condividono sì degli aspetti, siano essi contenutistici, culturali o tematici, ma che continuamente cambiano e si modificano seguendo lo sguardo di chi la racconta.
Si può poi discutere sulla qualità effettiva di un prodotto specifico, ma senza dimenticare quello che c’è alla base, quello che è stato lo scopo primo di Ghost in the shell, e successivamente ragionare sul valore delle opere derivate, non tanto seguendo un criterio di fedeltà, quanto un criterio di necessità. Non è importante avere più storie con Motoko, ma aggiungere qualcosa al discorso che iniziò Masamune Shirow, e che continuò Mamoru Oshii, con una delle pellicole migliori della sua eccellente filmografia.
Proprio con questo scopo abbiamo scritto l’analisi che segue, per mettere a fuoco il bagaglio contenutistico e filosofico di Ghost in the shell.
Facciamo un passo indietro, e vediamo cos’è Ghost in the Shell e perché ha avuto in impatto tanto grande nella produzione fantascientifica successiva.
Innanzitutto si parla di un franchise, di un brand, che è stato declinato in diversi modi. Ci sono i videogiochi, di cui nessuno di noi ha bisogno, ci sono due serie d’animazione, Stand Alone Complex, e una serie di OAV, Arise. I prodotti che ci interessano davvero, però, sono i due manga (e mezzo) e i due film d’animazione. L’opera originale è il manga, scritto da Masamune Shirow nel 1991, e relativo sequel, da cui derivano i due film di Mamoru Oshii, realizzati da Production I.G. e pubblicati rispettivamente nel 1995 e nel 2004.
I due prodotti sono da intendersi come opere separate e non come l’adattamento cinematografico di un manga, nonostante di fatto quest’ultima affermazione sia corretta. Questo perché Oshii non ha solo adattato un manga in un altro formato, ma ha preso la materia originale e l’ha riplasmata, cambiandone il tono, e ciò è ancora più evidente con il secondo film, Innocence.
Il manga è uno di quei libri che fanno venire il mal di testa, fittissimo di contenuti anche solo abbozzati ma utili a costruire un mondo credibile, fantascienza e fantapolitica nell’accezione più pura dei due termini. Il risultato è, oltre a una storia complessa, un’opera che riesce a fare quello che dovrebbe fare qualsiasi prodotto che vuole essere fantascientifico: riflettere sul futuro.
Trattandosi di cyberpunk però, la riflessione si concretizza innanzitutto sulla natura dell’animo umano. Cos’è l’anima, quindi? Nel manga, che segue le stesse vicende dell’anime, queste riflessioni sono più criptiche, più diluite e frammentate. Nei film di Oshii il tono, invece, cambia. Il discorso viene a galla con più forza e il regista mette questa considerazione in cima alle sue priorità.
Laddove Shirow costruisce un mondo in modo minuzioso, dando flash della situazione politica internazionale, del rapporto tra gli stati e infine riempiendoci la testa di informazioni (fanta)scientifiche di difficile lettura, Oshii screma tutto questo lasciando più spazio alle riflessioni filosofiche.
“Filosofia” non è qui usato a casaccio per definire generici vaneggiamenti di un autore, perché le basi di Ghost in the Shell sono effettivamente nei testi di filosofia, primo tra tutti The Ghost in the Machine di Koestler, che a sua volta si rifà alla critica al dualismo cartestiano mente – corpo di Ryle. Secondo Cartesio infatti la mente era un elemento immateriale, non appartenente al sistema corpo, da qui il dualismo. Secondo i filosofi appena citati invece, la mente, il pensiero, altro non è che una funzione del cervello, che evolutosi nei secoli ha ora raggiunto un grado di complessità tale da permetterci di formulare ragionamenti logici. Il discorso viene articolato da Shirow proiettandolo nel futuro e, di fatto, tornando al concetto cartesiano di “Penso, quindi sono”.
Nel momento in cui il Ghost, l’anima, non è più direttamente dipendente dal corpo, perché quest’ultimo è artificiale, il pensare diventa veramente l’unica cosa a definire un essere umano. Il pensare però dipende da stimoli esterni, che possono essere ricevuti solo tramite un corpo che colleghi il Ghost, il nostro io, al mondo esterno. Nell’equazione poi si inserisce il cyberspazio, nel quale la nostra protagonista viaggia liberamente e trova stimoli sensoriali che teoricamente dovrebbero essere collegati al mondo fisico, come dimostrano le diverse esperienze sessuali che Motoko fa appunto nella rete.
Shirow aggiunge un altro fattore, il Puppet Master. Questo è nato dai dati presenti in rete, è figlio di un sistema che, aumentando di complessità, ha generato un essere senziente, così come il sistema corpo umano ha infine, con l’evoluzione, dato i natali ad un cervello in grado di realizzare pensieri complessi, quindi in grado di pensare e dunque di essere. Seguendo questo ragionamento, il Puppet Master è, perché è cosciente di stesso, nonostante sia un’entità che non esiste sul piano fisico, ma è soltanto “dati”.
Allo stesso modo Motoko, che non ha un corpo fisico, esiste principalmente come intelligenza, nonostante la diversa genesi rispetto al Puppet Master. Alla fine del primo film le due entità si uniscono, e ciò che ne nasce non è un figlio, come sarebbe consuetudine, ma un’unione dei due, un qualcosa di nuovo, un ibrido coscienza umana – coscienza delle macchine, che proietta l’esistenza – sarebbe sbagliato a questo punto parlare di “essere umano”- verso un nuovo stato dell’essere.
Il Ghost quindi è, a prescindere dal corpo che lo ospita. Un altro importante riferimento di Ghost in the Shell è A Cyborg Manifesto di Donna Haraway, un trattato femminista pubblicato all’inizio degli anni ’80. L’autrice nota come l’evoluzione tecnologica, nello specifico la possibilità di sostituire i nostri corpi per diventare dei cyborg, permetterà agli esseri umani di superare il classico dualismo uomo/donna, rendere tutti quanti liberi dalle diverse categorie di genere. In Ghost in the Shell vediamo come Motoko abbia poca cura del proprio corpo, consapevole di poterlo sostituire in qualsiasi momento, e vediamo anche come non provi vergogna nell’essere costantemente nuda.
Perché il suo corpo è uno strumento, è una parte certamente utile di lei, che però non la definisce come essere umano. L’unica cosa che le preme è essere consapevole di se stessa, si preoccupa dei suoi ricordi e della loro veridicità. Ancora più importante, per quanto riguarda l’identità di genere di Motoko, è la fusione con il Puppet Master: lui è neutro, ovviamente, in quanto nato dai dati presenti in rete, mentre lei è una donna. Ciò che risulta dalla loro fusione è un uomo o una donna? E soprattutto, è davvero importante essere definito in un senso o in un altro? Il corpo in cui questo nuovo Ghost viene chiuso è quello di una bambina, perché Batou questo ha trovato al mercato nero. Non perché l’anima al suo interno abbia un genere, e quindi sia una donna.
Ripetiamoci: Ghost in the Shell è fantascienza di qualità perché riflette su un futuro possibile; riflette su come l’essere umano potrebbe diventare man mano che il progresso tecnologico avanzerà. Per questo è ancora attuale, e per questo ha influenzato la produzione fantascientifica successiva. Il discorso portato avanti da Shirow e Oshii non è ovviamente originale, il cyberpunk non l’hanno inventato loro, e affermare una cosa del genere sarebbe fare un torto a Dick, Scott e Gibson con i loro Do Androids Dream of Electric Sheep?, e quindi Blade Runner, e Il Neuromante. Quello che però è riuscito a fare Ghost in the Shell è stato il portare la riflessione ad un livello più profondo, rimanendo comunque saldamente pop.
Matrix dei fratelli Wachowski, I.A. Intelligenza Artificiale di Spielberg, e Avatar di Cameron, devono qualcosa a Ghost in the Shell, e non perché lo stiamo immaginando noi, ma perché gli autori si sono spesi in parole di apprezzamento verso l’opera di Oshii, e poi ne hanno evidentemente tratto delle tematiche.
Ghost in the Shell non è l’opera super complessa a cui una nicchia di registi colti si riferiscono per derivarne le loro, ma è un’opera pop, come abbiamo osservato, e il perché è semplicemente detto: per pop intendiamo quelle cose che sono ferme nell’immaginario di tutti, come il ritornello di Like a Virgin, che è pop perché tutti lo conosciamo, è la “cultura generale” che mette ansia agli esami di maturità.
E da Ghost in the Shell, questa volta riferito al solo Oshii, derivano alcuni elementi che associamo alla fantascienza in modo inequivocabile. Ad esempio? Avete presente quelle incomprensibili linee di testo e numeri verdi, che scorrono, in Matrix? Ecco, indovinate un po’ da dove vengono.