Il ritorno degli acchiappafantasmi
Nell’avviarci a discutere di Ghostbusters: Legacy, presentato come evento d’apertura ad Alice nella città 2021, dobbiamo subito andare a intenderci sulla misura sopra la quale il terzo film dell’iconico franchise è ragionato e creato.
C’è un atto di immediata presa di coscienza da compiere che coinvolge l’approccio che si ha nei confronti delle produzioni omaggio, di quei tributi la cui unica matrice vive in funzione di ciò che è stato e che evidentemente è destinato a tornare, per un’ultima sfiammata, in lavori come questo qui.
Ghosbusters: Legacy è un omaggio per i fan nostalgici
Non c’è altro reale spazio per comprendere adeguatamente Ghostbusters: Legacy, che vive in tutto e per tutto all’insegna della funzione del ricordo, del memoriale. Si prepara, poi, anche al passaggio di consegne, con i suoi tempi e metodi, forte di una legittimazione interna dal nome “nostalgia” che elide dal continuum spaziotempo il bistrattato ingiustamente, se non addirittura codardamente a suon di review bombing, reboot al femminile della saga uscito nel 2016.
Sembra, insomma, che l’unico rimedio al peccato della lesa maestà sia il tornare all’interno dei binari che una storia l’hanno scritta e che non vogliono vedersi applicata una svolta ad angolo retto, tantomeno una traiettoria parallela. Non sapremo mai per certo quanto questo film qui esista in risposta all’umore guasto post-reboot (operazioni sempre ad alto coefficiente di rischio) del fan storico e quanto navighi sull’onda dell’euforia della serializzazione contemporanea. Verosimilmente ci troviamo a metà strada.
Bene, che tutto questo sia un atto dovuto o un atteggiamento conservatore è interessante ma fino a un certo punto, in quanto la risposta risiede nella sensibilità personale e da lì non si schioda. Resta però fondamentale inquadrare il senso dell’operazione dietro Ghostbusters: Legacy (che, per inciso, in originale è Afterlife), molto più sfaccettata e carica di implicazioni di quanto possa apparire a una prima occhiata. Una volta fatto e scelto il filtro di lettura occorre rendersi però conto che Ghostbusters: Legacy è davvero un ottimo film.
Chiaro, e lo ribadiamo ancora, coerente soltanto all’interno dell’arco della lacrima che è chiamata a scendere lungo la guancia, ma davvero un ottimo film. C’è tutto quello che deve esserci per il fan storico, a partire da Jason Reitman che eredita la regia dal papà Ivan e che firma un’irriverente e rispettosa sceneggiatura assieme a Gil Kenan.
Un’operazione omaggio lucida e precisa
Colpisce da subito la puntualità di un prologo calibrato benissimo nell’andare, senza una singola parola, a costruire un ponte tra il prima e il dopo. Il prima è un’eredità (affettiva, non economica) lasciata da un nonno da poco deceduto e che è da sempre rimasto distante dal dopo, ovvero una figlia (Carrie Coon) che è madre single di Phoebe (Mckenna Grace) e Trevor (Finn Wolfhard).
La speranza di questo sgangherato nucleo familiare di immergersi nella sperduta Summerville, cittadina dell’entroterra statunitense, solamente per incassare un assegno da riportare indietro nella metropoli svanisce ben presto. Nella diroccata magione del nonno emergono, però, stranezze che poco a poco tessono una tela che rievoca dal passato gli sfumati ricordi di quelli che furono i Ghostbusters.
A metà tra la leggenda urbana da podcast complottista (amerete il piccolo Logan Kim) e i mockumentary da trovare su YouTube, gli acchiappafantasmi sono roba per generazioni d’altri tempi. Un po’ come lo è il professor Grooberson di un Paul Rudd che probabilmente è l’unico pendolo comico in circolazione che poteva andarsi a prendere questo ruolo qui, teso nel mezzo tra il cicerone di Phobe e Trevor e la rassicurante incarnazione del fan cresciutello che si accomoda in sala.
Un po’ alla volta escono fuori tutti gli attrezzi iconici del mestiere, rilevatori, trappole, la Ecto-1, mentre tanti altri piccoli omaggi si annidano nei dettagli (il film in cartellone nel cinema locale, che sembra tra l’altro piuttosto deserto). Il punto di forza di Ghostbusters: Legacy è di svelarsi senza bruciare tappe, di ragionare lucidamente sull’assegnazioni delle chiavi nelle mani di una nuova gioventù di attori capacissimi e in palla, sull’onda dell’entusiasmo retro-nostalgico à la Stranger Things (dopotutto c’è Wolfhard…) e il nuovo eroismo cinematografico femminile.
Un film che sa commuovere e cambiare
Insomma non si manca di abbracciare la contemporaneità e la sua amalgama di ragionamenti mediali e sociali, pallino di film come questi che devono arrivare a farsi passaggio del testimone. E Ghostbusters: Legacy ci arriva bene, facendo leva su un umorismo squillante ma che attraversa nel mezzo una narrazione fluida che in realtà, a ben guardare, squillante non lo è per niente.
Anzi, siamo nel derivativo e sulle orme di quanto fatto da Il risveglio della forza qualche tempo fa con la sua sensazione di déjà-vu, che eppure non stupisce perché si colloca in una zona franca che rientra esattamente negli intenti del film. Della messa in scena della minaccia non interessa niente a nessuno, perché i fantasmi dietro ai quali si corre sono quelli della memoria e di un ultimo saluto dalla comfort zone per eccellenza, con le scene emozionali collocate al posto giusto al momento giusto per commuovere (e d’altronde come non si potrebbe in QUEL finale?) e permettere che il passaggio sia il più docile possibile.
Ghostbusters: Legacy è la coccola perfetta a uso e consumo del fan, paziente, quasi accondiscendente e allo stesso tempo il modo più innocuo di imprimere il cambiamento. Però ci riesce, bene, e questa forse è la cosa più importante.