Ghosts ‘n Goblins è un grande classico arcade di Capcom senza tempo. Scopriamo il perché con questa retrospettiva
Se pensiamo ad un gioco hardcore, sviluppato da Capcom, di pura azione, in cui lo scopo principale del giocatore è annientare una sequela di demoni inferociti, probabilmente la prima cosa che ci viene in mente è Devil May Cry. Nel 1985 però, sarebbe stata la descrizione perfetta per Ghosts ’n Goblins, uno dei titoli arcade più famosi al mondo. Certo, il mood un po’ “burtoniano”, un po’ ironico, era completamente diverso rispetto alle vicende di Dante, ma sicuramente non meno affasciante, visti gli innumerevoli giochi che in seguito ne hanno ricalcato le atmosfere.
Con la storia più semplice del mondo, che potremmo definire quasi la versione dark del soggetto in un qualsiasi Super Mario, il gioco ti metteva nei panni del valoroso Sir Arthur pronto a salvare l’amata principessa Prin-Prin rapita da Satan per conto del grande demone Astaroth, attraversando i 7 micidiali livelli di gioco, numero che variava a seconda della versione, visto che venne convertito per più di 10 sistemi diversi e ad esempio, l’edizione C64 conteneva solo 4 dei 7 stage.
L’autore di gioco, tale Tokuro Fujiwara, è un vero e proprio genio nell’ambito dell’arcade gaming, creatore non solo di Ghosts ’n Goblins ma anche di numerosi classici del videogioco come Tombi! o Bionic Commando solo per citarne un paio. Fu inoltre produttore di una infinità di classiconi di Capcom, come alcuni capitoli di Mega man, Breath of Fire, e del primo Resident Evil. Ma quale è la particolarità principale di quello che fu uno dei suoi primi successi in assoluto, ovvero proprio Ghosts ’n Goblins?
Oltre la superficie evidente e ultra nota di run and gun super impegnativo, c’era ben altro che definiva il brillante design del titolo. La stessa famigerata difficoltà è frutto di studi non cosi banali se ci pensiamo. Il gioco nato come arcade da sala richiedeva una serie di livelli di sfida finalizzati a far spendere un mucchio di soldi al giocatore. Non solo gli ostacoli su schermo dovevano avere tutti movimenti diversi e molto complessi da memorizzare, ma dovevano essere comunque difficili da contrastare anche dopo aver raggiunto una certa consapevolezza su come si spostavano.
Ne derivava una progressione di gioco che marcava stretto il giocatore senza permettergli di prendere fiato, con tempo limitato per finire gli stage, nemici dal respawn infinito e pattern d’attacco pensati per fregarvi sempre e comunque. Sia nel platforming che nel combattimento il “level design trappola” di Fujiwara metteva continuamente in difficoltà il giocatore, ora con superfici in cui saltare che ti inducevano all’errore all’ultimo istante con uno spostamento imprevisto, ora con nemici provvisti di scudo che avanzano verso Arthur a gran velocità, ma che allo stesso tempo subiscono danni solo alle spalle, giusto per fare qualche esempio.
Allo stesso tempo però era necessario rendere avvinghiante il gameplay in modo da non esasperare quello stesso giocatore davanti a tanta difficoltà. Ecco quindi che ad un ritmo intenso ed ipnotico si accompagna un gioco incredibilmente accattivante a livello visivo, dettagliatissimo in ogni suo elemento per l’epoca, uno dei primi veri gioielli in pixel art, precursore di altri mostri sacri dell’estetica digitale fondata sugli sprite come ad esempio Metal Slug, il quale arriverà solo una decina di anni dopo. A consolidare la cifra stilistica monumentale del titolo, ci pensava poi la colonna sonora di Ayako Mori a dir poco ispiratissima e tutt’oggi super iconica.
Il fascino di Ghosts ’n Goblins
Il gameplay immediato e profondo però, come per tutti i capolavori del genere, fu il fattore che fece davvero la differenza. Arthur si controllava in maniera responsiva, semplice, ma la precisione richiesta era tanta. Il salto ad esempio sembra quasi impacciato e senza possibilità di correggere la direzione in volo, al netto di questa complicanza però renderlo efficace durante l’azione dona non poche soddisfazioni. Anche sul fronte equipaggiamento nonostante si trattasse di sparare come se non ci fosse un domani a tutto quello che si muove su schermo, in realtà c’erano variabili piuttosto interessanti. Le cinque armi presenti nel gioco si rivelano infatti estremante diverse se si mettono in relazione al tipo di gioco e all’epoca in cui uscì nel mercato.
In un sistema di drop imprevedibile che ci impone di imparare ad usarle in un modo o nell’altro tutte, alcune apparentemente sembravano palesemente peggiori delle altre, ma uno studio attento di tutti gli strumenti offensivi rivela infine le peculiarità di ognuno di essi. La lancia inziale ad esempio è comoda ma spara solo due colpi per volta, altre armi con traiettorie ad arco difficili da gestire come la torcia o l’ascia hanno vantaggi da considerare: per la prima si tratta della fiammata che genera sul terreno per alcuni istanti e per la seconda la capacità di colpire tutti i nemici con cui si scontra. Anche lo scudo (che nella versione giapponese è una croce), che con il suo corto raggio appare a tutti gli effetti l’arma peggiore del gioco, possiede l’abilità unica di assorbire i proiettili nemici, senza contare la sua importanza trasversale, visto che è necessario averlo equipaggiato per poter incontrare e sconfiggere Astaroth.
Ghosts’n Goblins è una sfida sfacciata continua al giocatore, che però è funzionale all’apprendimento di ogni singolo e più piccolo elemento di gameplay in una continua scoperta di interazioni che provocano un rapporto di causa-effetto immediato, in cui niente ma proprio niente è fine a sé stesso. Addirittura colpire troppe lapidi provoca la comparsa di un mago che ci trasforma in rana complicandoci le cose. Una sfida, che culmina con la richiesta di un secondo giro infernale di tutto il gioco, visto che una volta sconfitto Astaroth, questo si rivela solo una illusione e si è costretti a ricominciare tutto da capo.
Ghosts ’n Goblins aveva quindi quel fattore X che lo rendeva semplicemente fantastico, ovvero una vasta densità di micro variabili, di contenuti e di sotto meccaniche, tra cui ad esempi la possibilità di cancellare frame di animazione tra un colpo e l’altro muovendo Arthur in una direzione e sparando quindi più velocemente. C’è insomma una grande cura per i dettagli, che lo distingueva da altrettanti prodotti arcade ugualmente strepitosi, super levigati e dal level design sopraffino, ma magari dotati di meno livelli di complessità nel loro gameplay e nella loro struttura. Una particolarità che dopo trenta anni a conti fatti ancora definisce la filosofia di fondo di quei giochi difficili ma bellissimi, che si rivelano coinvolgenti da esplorare all’infinito proprio in virtù degli molti dettagli che caratterizzando tanto il gameplay quanto l’ambiente di gioco, come ad esempio i titoli di Miyazaki, per citarne alcuni tra i tanti.
Ulteriore ottima pensata di Capcom fu quella di stemperare, come già accennato prima, tanta deliziosa frustrazione con un gioco dai toni palesemente sopra le righe che si contrapponevano alla marcata letalità di ogni minaccia che si poneva davanti al nostro cammino. Un umorismo di fondo che parte dalla curiosa introduzione del gioco con il nostro cavaliere mezzo nudo durante un incontro romantico al cimitero, e passa attraverso una serie di dettagli bizzarri come le leggendarie mutande con le fragole (da tutti scambiate per cuori da sempre) che lasciavano il nostro Arthur in panni poco epici dopo aver subito un attacco. Orrore e umorismo formano un connubio che esiste da sempre sia nel cinema che nei videogiochi, ma è indubbio che per quel che riguarda questi ultimi ancora una volta Ghosts ’n Goblin ha fatto scuola, ispirando diversi titoli che si affideranno allo stesso mood come ad esempio Medievil.
Gli eredi di Ghosts ’n Goblins
Il successo di Ghosts ’n Goblin ha trasformato negli anni il titolo in una saga prolifica. Numerosi infatti furono i progetti dedicati al suo immaginario tra seguiti più o meno ufficiali e spin-off. Addirittura uno di questi ultimi divenne una saga a parte composta da tre capitoli, Gargoyles Quest, che vedeva protagonista uno dei nemici più iconici dell’avventura di Arthur: Firebrand. Sicuramente degno di menzione speciale è però il seguito ufficiale di Ghosts ’n Goblin, ovvero Ghouls ’n Ghosts, nel 1988, che riprendeva con fedeltà la formula originale aggiungendo diverse novità.
Oltre ad un drastico miglioramento grafico infatti tra le novità principali troviamo la possibilità di attaccare in 4 direzioni e la presenza di una nuova armatura dorata che permetteva di rilasciare un potente attacco magico. Inutile dire che anche questo capitolo ha ricevuto una caterva di conversioni più o meno fedeli. Impossibile non menzionare in tal senso Super Ghouls ’n Ghosts per Super Nintendo, che portava al gioco talmente tante modifiche da essere praticamente considerabile un titolo a parte. Se consideriamo il gameplay, anche la sola aggiunta del doppio salto e l’eliminazione dello sparo verso l’alto cambiavano totalmente il modo di approcciarsi al gioco, ma c’era molto di più. I livelli erano completamente nuovi, studiati per spremere al massimo le caratteristiche hardware di Super Nintendo e il suo chip Mode 7, tra livelli roteanti, effetti 3D e superfici che si plasmano in maniera sorprendente per l’epoca.
Ciò nonostante, se lo chiedete a me questo Super Ghouls ’n Ghosts, per quanto resti tra i cult per la macchina 16bit di Nintendo, rimane un gradino sotto l’originale Ghouls ’n Ghost arcade, a causa di un ritmo di gioco molto più rilassato, appesantito ulteriormente da un processore che su SNES rendeva il gioco lento, e ad una leggera tendenza a rompere qualche equilibrio tra platforming e combattimento, che generava tra livelli molto ben riusciti come il vascello, altri molto meno entusiasmanti che in generale non aggiungevano nulla di sostanzioso a quanto di buono già fatto da Ghouls ’n Ghosts, ma anzi risultavano talvolta meno appassionanti.
Seppur quindi ribadisco che nella softeca di Super Nintendo rimane comunque un titolo di tutto rispetto e ottimo esponente del suo genere. Non stupisce quindi che Tokuro Fujiwara non diresse direttamente il progetto, ma fa solo da producer. Un caso più unico che raro perché a differenza di molti altri brand trentennali che passano negli anni il timone a diversi sviluppatori per un motivo o per l’altro, Ghosts’n Goblin è sempre stata una serie seguita dal suo autore nonostante i lunghi anni che hanno diviso i capitoli principali della saga, un po’ come per Kojima e Metal Gear.
Anche Ultimate Ghosts ’n Goblins e il recentissimo Ghosts ’n Goblins: Resurrection sono quindi opera di Fujiwara. Possiamo solo rallegrarci che il DNA di Ghosts ’n Goblins attraversi le epoche videoludiche senza perdere di integrità, perché si tratta un evergreen dal fascino intramontabile che merita di essere rispolverato, magari tirato a lucido con qualche nuova versione, e scoperto dai videogiocatori di qualunque generazione, oggi come 35 anni fa.