Climate fiction e immigrazione sono al centro del nuovo romanzo di Sam J. Miller, pubblicato da Zona 42
Secondo una larga parte dei critici e giornalisti italiani, la fantascienza (oltre a essere un genere – e quindi in quanto tale – inferiore alla Letteratura) merita di essere presa sul serio solo quando si fa allegoria: ben vengano Orwell e il suo 1984, monito di una società dispotica e smemorata, la Atwood e le sue ancelle, specchio di una misoginia diffusa e capillare, e non dimentichiamoci Philip K.Dick, da molti (che non l’hanno mai letto) considerato il miglior scrittore di sci-fi di ieri, di oggi, e probabilmente anche di domani. Tutto il resto, tutto quello che noi appassionati discutiamo quotidianamente, tra annunci di nuove pubblicazioni e inevitabili ristampe, non emerge nel mare magnum della cultura italiana più di quanto faccia l’iceberg al di sotto della punta. Un vero peccato, adesso che anche gli iceberg si stanno sciogliendo sempre più velocemente, perché La città dell’orca è proprio quel romanzo di fantascienza che può essere facilmente etichettato come “non è solo un romanzo di fantascienza, è molto di più” e che piacerebbe tanto ai giornalisti delle pagine di cultura dei quotidiani italiani.
Siamo chiari: La città dell’orca, primo romanzo pensato per un pubblico adulto del candidato ai Nebula Sam J. Miller, è un puro romanzo di speculative fiction, che mischia previsioni scientificamente accurate del futuro con tecnologie non ancora esistenti e un coro di protagonisti ottimamente inseriti nell’ambiente immaginato da Miller, ma non ditelo troppo in giro, altrimenti nessun giornalista lo prenderà troppo sul serio. Non parlate, per esempio, del worldbuilding di Qaanaaq, così minuzioso e attento a ogni aspetto della vita nella città galleggiante, che alla fine sembrerà anche a voi di essere cresciuti tra i bracci di questa piattaforma a nord dell’Islanda e a ovest della Groenlandia; non parlate dell’escamotage usato dall’autore per immergere il lettore in uno spazio e un tempo altro senza rischiare l’infodump; non nominate neanche la presenza di esseri umani nanolegati ad animali selvaggi, i giornalisti sono individui che si spaventano facilmente.
Non parlate di tutto questo, non solo per dissimulare di fronte ai giornalisti, ma anche perché non sono gli aspetti più importanti del romanzo appena pubblicato da Zona 42, tuttavia non cercate neanche di sminuirne l’importanza, dicendo per esempio che La città dell’orca è un buon romanzo, ancora prima di essere un buon romanzo di fantascienza, o un’altra di quelle formulette svilenti e avvilenti che servono per far prendere sul serio un romanzo da chi legge solo libri seri. Se volete vincere facile, in ogni caso, potete usare una parolina (in realtà due) magica che potrebbe distogliere l’attenzione dei critici da qualunque sia lo scandalo editoriale della settimana: cli-fi.
La climate fiction è la nuova distopia, sebbene la visione del giornalista Dan Bloom, che ha coniato il termine qualche anno dopo l’ingresso nel ventunesimo secolo, non fosse quella di un genere nato come sottocategoria della science fiction, ma di una corrente letteraria che comprendesse ogni tipo di storia considerasse il problema del cambiamento climatico. Con buona pace dei Letterati, però, la lezione della narrativa climatica è stata raccolta per la maggior parte proprio dagli autori di genere, da sempre abituati a vedere più in là del proprio naso, sia come individui, che come specie.
La cli-fi, infatti, non è una fantascienza in salsa climatica, ma un mezzo – come tutta la buona fantascienza – per parlare del presente, o meglio, di un futuro così prossimo che sta già iniziando a essere presente. Del resto sono anni che la sci-fi cerca di metterci in guardia dai rischi di uno sfruttamento sfrenato delle risorse del pianeta, però se le piogge acide sopra la Los Angeles di Rick Deckard e le utopie verdi di Kim Stanley Robinson non hanno fatto breccia nel cuore delle nostre paure di estinzione, una nuova ondata di romanzi e racconti sfrutta la tendenza del cervello umano di assimilare informazioni attraverso le storie.
Come sostenuto dallo scrittore e studioso Jonathan Gottschall nel suo saggio L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani, un’altra definizione calzante per la nostra specie, homo sapiens, potrebbe essere homo fictus, perché l’uomo è, in sostanza, un animale che racconta storie. Attraverso queste storie, generazioni di individui si sono tramandati informazioni utili per la sopravvivenza: pericoli e suggerimenti. E, attraverso le storie, la città di Qaanaaq e i suoi abitanti sopravvivono a un mondo che cambia forma, ma in cui la sete di potere resta la stessa. I protagonisti de La città dell’orca sono – a prescindere dallo stato sociale – degli incompleti, quasi che l’epidemia di frantumo – malattia che frammenta i ricordi dell’individuo, mischiandoli a quelli degli altri malati come tessere dello scarabeo nel sacchetto – aleggi sopra i malati e sopra i sani.
“Qaanaaq non era un foglio bianco. La gente portava con sé i propri fantasmi. Terra e storie e pietre dai propri paesi natii inghiottiti dal mare.” così viene descritta la città, un enorme mosaico di culture e pelli e colori e lingue; “Le storie sono importanti, qui. Sono tutto quello che ci siamo portati quando siamo arrivati; nessuno ce le può sottrarre”. Il tema dell’emigrazione, dell’abbandono della propria casa, viene affrontato da Miller con un’acutezza che troppo spesso manca tra le pagine dei quotidiani, e si percepisce la volontà di non semplificare un fenomeno che di semplice non ha proprio niente. Il turismo della povertà, la speculazione degli appartamenti vuoti, la gig economy, la trappola insita nel trasformare ogni notizia in una storia, la facilità con cui, nell’arco di poche semplici frasi, si trasforma il diverso in nemico; questi sono i motivi per cui parlare di questo romanzo è importante, questo è il motivo per cui coloro che mettono il loro lavoro al servizio della comunità, per informare, dovrebbero, ancora prima del resto del mondo, leggere questo romanzo.
Perché La città dell’orca è un romanzo di storie in cui poco importa la trama, quanto piuttosto l’intreccio: l’intreccio di vite, di esperienze, di idee, di ciò che è stato, per i protagonisti, di ciò che sarà, per i lettori.
Se leggete fantascienza, leggete La città dell’orca e perdetevi nei suoi luoghi, lasciando che anche il cervello si soffermi su ciò che state leggendo, che è intrattenimento, sì, ma mai fine a se stesso, mai sterile.
Se non leggete fantascienza (e magari siete anche giornalisti), è il momento giusto per iniziare a considerare questo genere, in grado di anticipare i tempi come la letteratura ombelicale non riuscirà mai a fare, uno strumento in grado di aiutare il lettore a comprendere il presente e cambiare il futuro, senza neanche bisogno di una macchina del tempo.
Salite a bordo, La città dell’orca vi aspetta.