L’arrivo della Grand Theft Auto: The Trilogy – Defenitive Edition ci permette di ragionare su concetti come la deriva situazionista e la psicogeografia
Qualche settimana fa Rockstar Games ha annunciato la Grand Theft Auto: The Trilogy – Definitive Edition. Parliamo di un’edizione rimasterizzata di GTA III, GTA: Vice City e GTA: San Andreas, la cui uscita è prevista per l’11 novembre su console di vecchia e nuova generazione. Un progetto che mira a riproporre alcuni dei capitoli più emblematici della serie, aggiornandoli sia dal punto di vista tecnico-estetico che di gameplay, grazie all’adozione di alcune delle meccaniche di controllo introdotte con GTA: V. Senza dimenticarci dell’importanza capitale che questa trilogia ha avuto nei confronti dell’intero medium videoludico (dall’aver rivoluzionato gli open world/sand box, all’inevitabile e dinamitardo impatto culturale e sociale extra-ludico che ha avuto nel corso degli anni, giusto per citare due evidenze fra le tante), l’obiettivo di questo articolo sarà circoscrivere e rileggere potenziali esperienze individuali all’interno del vocabolario di suggestioni e tecniche offerte dal lessico situazionista. Più nello specifico, servendoci di concetti quali la psicogeografia e la (sua) pratica esplorativa che prende il nome di deriva.
Grand Theft Auto: deriva e psicogeografia
Prima di addentrarci nel percorso a ritroso fra i fantasmi binari della ludosfera, è bene, oltreché funzionale, introdurre ed esplicitare di che cosa parliamo quando parliamo di psicogeografia e di deriva in relazione a Grand Theft Auto.
I due vocaboli appartengono, secondo un processo di genesi e mutua influenza-confluenza, al gergo del movimento lettrista e di quello situazionista. Il primo, il lettrismo o movimento lettrista, è stato un movimento di avanguardia orientato all’arte e alla cultura, teorizzato dal poeta, scrittore e autore teatrale e cinematografico Isidore Isoue negli anni Quaranta. Critico della società contemporanea, Isoue propose una rinuncia all’utilizzo della parola in quanto tale, preferendovi, invece, il suono, l’onomatopea e la musicalità prosodica degli elementi di un discorso. Il movimento lettrista fu, insieme al dadaismo e al surrealismo, centrale nel processo di superamento della settorializzazione dell’arte coniugando intellettualismo, edonismo ed energiche attestazioni di protesta.
Il secondo, nato nel luglio del 1957 a Cosio di Arroscia, dalla fusione di esperienze e movimenti contemporanei, come l’Internazionale lettrista, il Movimento Internazionale per una Bauhaus immaginista, il movimento CO.BR.A. e il Comitato psicogeografico di Londra, presenta un programma ben preciso: ovvero, la volontà di creare situazioni, definite come «momenti di vita concretamente e deliberatamente costruiti mediante l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di eventi». Figure di spicco furono, Guy Debord (autore del fondamentale La società dello spettacolo), Asger Jorn, Raoul Vaneigem e Giuseppe Pinot-Gallizio. I quali, elaborarono e teorizzarono le strategie attraverso cui forzare e porre in essere quelle situazioni nei luoghi fisici delle città: parliamo, allora dell’Urbanismo unitario, dell’idea che occorre liberare il tempo libero dal superfluo poiché contenitore di un enorme potere rivoluzionario, e della psicogeografia che esplora un territorio (e anche un videogiochi come Grand Theft Auto) mediante il fenomeno della deriva.
La psicogeografia, definita come «studio degli effetti precisi dell’ambiente geografico, disposto coscientemente o meno, che agisce direttamente sul comportamento affettivo degli individui», è insieme una forma ludica di spostamento e un atto mirato a realizzare metodi efficaci per decostruire gli spazi urbani come le grandi città metropolitane. Essa si realizza tramite l’atto della deriva, si configura come una pratica etica ed estetica che aveva nelle esperienze dadaiste e surrealiste dei precedenti che avevano intuito nella pratica dell’erranza una funzione alternativa all’espressione artistica istituzionale e un modo per mappare (e quindi leggere) i centri abitati.
Guy Debord, a proposito della deriva, scrive: «Per fare una deriva, andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l’alto, in modo da portare al centro del campo visivo l’architettura e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista. Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari».
La differenza fra il passeggiare e l’applicare la deriva, risiede, allora, nell’intenzionalità rispetto al proprio movimento nello spazio. Scegliere di muoversi seguendo dei binari insoliti, lasciandosi ispirare da una casualità non predeterminata, che va al di là dei soliti percorsi abitudinari e ri-orientare la propria falcata in base a suggestioni improvvise, rende la deriva una vera e propria rinuncia al convenzionale modo di spostarsi1. Una decisione che non impoverisce il bagaglio esperibile ma ne potenzia le facoltà interpretative, epistemologiche e ontologiche: approcciare a un territorio svincolandosi dal già conosciuto, lascia emergere delle pieghe che il reale possiede, ma che a livello cognitivo siamo disabituati a cogliere. In questo modo non solo amplieremo il nostro orizzonte conoscitivo, laddove le architetture acquisteranno nuove forme e i percorsi nuovi riflessi, ma raggiungeremo un accordo insperato con lo spazio che ci circonda grazie al nostro vagabondare.
Si tratta di una tecnica che mira a trasformare lo spettatore in un attore; in un individuo dotato di agentività che scopre, o riscopre, quei luoghi in cui crede di essere rinchiuso in un torpore colmo di inazione. Dotarlo di nuovi congegni psicologici, mediante i quali far esplodere la propria soggettività, libera la possibilità esprimersi e di sperimentare e lo sovrappone, senza sostituzioni gerarchiche, a tutti quegli aspetti oggettivi presenti nel tessuto dell’esistenza materiale. Viene favorita, perciò, la maturazione di uno spirito critico grazie al quale avere più occhi con cui osservare in modo profondo e sentito ciò che accade senza subire quegli automatismi, subdoli e spietati, imposti dalla società e dal comodo vivere quotidiano.
Sempre sulla deriva, Debord, aggiunge che: «[c]i si può lasciar andare alla deriva da soli, ma tutto mostra che la suddivisione numerica più fruttuosa consiste nella formazione di parecchi piccoli gruppi di due o tre persone giunte ad una stessa presa di coscienza, poiché il confronto tra le impressioni di questi differenti gruppi deve consentire di arrivare a delle conclusioni oggettive. E’ auspicabile che la composizione di questi gruppi cambi da una deriva all’altra. Superando il numero di quattro o cinque partecipanti, il carattere proprio della deriva decresce rapidamente ed in ogni caso non è possibile superare la decina di persone senza che la deriva si frammenti in più derive condotte simultaneamente. D’altronde la pratica di quest’ultimo movimento è di grande interesse, ma le difficoltà che esso comporta non hanno mai sinora consentito di organizzarlo con l’ampiezza auspicabile. La durata media di una deriva è di una giornata, considerata come l’intervallo di tempo compreso tra due periodi di sonno. I punti di partenza e di arrivo, nel tempo, in rapporto al giorno solare sono indifferenti, tuttavia bisogna notare che in genere le ultime ore della notte sono poco adatte alla deriva».
Come scrive Matteo Lupetti, il tutto è riassumibile affermando e ribadendo che «[l]’obiettivo dei Situazionisti era prima di tutto la creazione di «situazioni», momenti «costruiti deliberatamente dall’organizzazione collettiva di un ambiente unitario [cioè nato dalla combinazione di ogni arte] e da un gioco di eventi». Il luogo in cui questo sarebbe dovuto succedere non poteva che essere la città, lo spazio dove gli uomini vivono, ma per riuscirci serviva una nuova teoria urbanistica, un «Urbanismo Unitario», cioè «l’uso combinato di ogni arte e di ogni tecnica nella costruzione integrale di un ambiente dinamicamente connesso con esperienze comportamentali». E per studiare come le città avevano sinora influito sulle persone e per ideare la loro città del futuro, i Situazionisti si affidarono a una disciplina chiamata «psicogeografia», lo studio degli «effetti, volutamente pianificati o no, del contesto geografico sul comportamento degli individui» (tutte queste definizioni vengono dall’Internazionale Situazionista del 1958). A sua volta, lo studio della psicogeografia, cioè degli effetti della città sull’uomo, poteva essere svolto con la pratica nota come «deriva», definita già nel 1954 sulla rivista Potlatch come «una tecnica di locomozione priva di obiettivi e che dipende dagli influssi dei luoghi». Vagando a caso e senza meta (e spesso ubriachi o drogati) i membri dell’Internazionale Situazionista si spostavano nella città solo sotto l’influenza della città stessa, e in questo modo potevano capire dove la città li portasse e gli effetti dei suoi luoghi. Potevano capirne, insomma, la psicogeografia». 2
GTA è un sandbox situazionista?
Costanzo Colombo Reiser afferma che «Grand Theft Auto III (2001) dimostrò che la tecnologia era ormai pronta a soddisfare i desideri di giocatori sempre più stufi degli stilemi classici dei videogiochi dell’epoca. Ambientato a Liberty City, una reinterpretazione tematica in 3D di New York, nella pietra miliare firmata Rockstar Games esisteva sì una trama principale che si sviluppava linearmente di missione in missione, ma i programmatori avevano disseminato la mappa di gioco con passatempi e attività secondarie che potevano essere affrontati in qualsiasi momento e che, se da un lato interrompevano il continuum narrativo principale, dall’altro andavano ad arricchire l’atmosfera generale. Destrutturando il tradizionale senso di progressione e calando il giocatore in una città tridimensionale dove era libero di fare quel che voleva, i programmatori avevano (inconsapevolmente) adottato l’idea di King: la trama (cioé l’esatto percorso che descrive l’arco narrativo del protagonista) aveva cessato di essere la forza trainante dell’esperienza, venendo sostituita dalla storia (intesa come il contesto tematico più ampio, in cui convergono più eventi anche slegati da loro)»3.
L’espressione “calando il giocatore in una città tridimensionale dove era libero di fare quello che voleva”, potrebbe essere utilizzata come esergo a introduzione di un qualsiasi capitolo della serie Grand Theft Auto. Poiché, laddove sono indiscussi i limiti e le catene tiranniche di autori che simulano un senso di libertà apparente, è altrettanto veritiero che, l’autore può essere sconfessato e rifiutato. Che si può giocare, e vivere, GTA anche in una sua forma depotenziata secondo le previsioni dei game designer. Una condizione di pacifico deragliamento alla ricerca di un senso altro; di un altrove trascurato che vogliamo trasformare, da semplice cartina geografica, a mappa interiore carica di un’emotività ricercata battendo strade alternative. Errare dentro Liberty City, Vice City o Los Santos, ognuna con le sue peculiarità, la sue divergenze e le sue assonanze caricaturiali del reale, apre al fare del movimento un atto poetico. A un esito che condivide molto con quell’atteggiamento ludico e propositivo che è stato adottato dai situazionisti e arrivare a fare delle strade cittadine un parco giochi in cui svestire l’inganno che la società dei consumi (e quindi l’industria videoludica/gli sviluppatori) ha perpetrato ai danni degli individui (dei giocatori). E con ciò aprirsi con consapevolezza allo Spettacolo e risvegliarsi per muovere i fili di marionette binarie praticando uno smarrimento che non ha scopi o fini ben precisi, guidati da stimoli e reazioni istintive. Forzare il brillamento dell’energia creativa interno a una gabbia che si realizza come la costrizione per eccellenza: un mondo pre-esistente, programmato per rispondere a un codice divino incontestabile calato dall’alto. O almeno, così sembra ci appare.
Ha scritto Debord (1956): «Fra i diversi procedimenti situazionisti, la deriva si presenta come una tecnica del passaggio veloce attraverso svariati ambienti. Il concetto di deriva è indissolubilmente legato al riconoscere effetti di natura psicogeografica e all’affermazione di un comportamento ludico-costruttivo, ciò che da tutti i punti di vista lo oppone alle nozioni classiche di viaggio e di passeggiata. Una o più persone che si lasciano andare alla deriva rinunciano, per una durata di tempo più o meno lunga, alle ragioni di spostarsi e di agire che sono loro generalmente abituali, concernenti le relazioni, i lavori e gli svaghi che sono loro propri, per lasciarsi andare alle sollecitazioni del terreno e degli incontri che vi corrispondono». 4
Agire utilizzando la pratica psicogeografica della deriva in Grand Thfet Auto è, allora, una scelta ludico-artistica che fonde ribellione a consapevolezza. Che mette in pratica quanto i situazionisti, come l’ottimo Fenomenologia di Grand Theft Auto a cura di Matteo Bittanti espone a più riprese, si ponevano come obiettivo: imparare le storie possedute e custodite da ogni quartiere, distretto o zona. Diventare parte di quelle narrazioni, o innescarne di nuove, come in un teatro il cui palcoscenico è fatto di asfalto, cemento e di ferro. Sfilacciare la struttura del reale/virtuale, per com’è d’uso, per sfidare la verticalità di un ordine precostituito e opporgli un’orizzontalità senza confini. Senza bordi che non siano altro che un’infinita sovrapposizione di strati porosi che accolgono punti pieni a spazi vuoti, zone esperienziali in cui la fenomenologia del girovagare senza obiettivi realizzi intermezzi per (im)possibili situazioni: «l’estetica poliforme delle espressioni artistiche trasforma gli esperimenti dei vagabondi in un gioco continuo».
Ed è proprio nel gioco nel gioco, in quello aggiuntivo, aumentato, operato dal giocatore-autore e dallo sviluppatore-autore, che il design non può che non collimare con i principi della psicogeografia. Vale a dire, nel processo di elaborazione e celebrazione spaziale di una geografia ludica che provoca un’esperienza psicologica forte come l’attraversamento di una città reale. La ricerca di verosimiglianza e di immersività, porta a migliaia di ore spese a sperimentare e progettare uno spazio urbano in grado di restituire un’esperienza ricca di emozioni e sensazioni. Attraversare le città di Grand Theft Auto con la deriva della psicogeografia, in effetti, non restituisce un che di esclusivamente topologico, non un solo accumulo informativo e analitico, ma invera una sedimentazione psicologica che si diffonde e opera per vie non sempre pre-calcolate ma che, con nuovi occhi, possiamo individuare ed esperire.
In un certo senso, possiamo affermare che, Grand Theft Auto, voglia (o renda possibile) realizzare i sogni dei Situazionisti.5
1 https://taccuinodibordo.wordpress.com/2012/05/10/47/
2 https://not.neroeditions.com/psicogeografia-e-videogiochi/
3 http://www.prismomag.com/no-man-sky-videogioco/
4 In (a cura di) BITTANTI, M., Fenomenologia di Grand Theft Auto, Mimesis Edizioni, Milano, 2019.
5 In (a cura di) BITTANTI, M., Fenomenologia di Grand Theft Auto, Mimesis Edizioni, Milano, 2019.