Appetiti pericolosi…

Justine (Lorenza Izzo) è una normalissima ragazza che frequenta un prestigioso college di New York. Un giorno scopre di sentirsi emotivamente coinvolta dalle cause di un gruppo di giovani attivisti che, per salvare alcune tribù minacciate dalle compagnie che voglio impossessarsi delle loro terre per trarne un profitto, decidono di partire per l’Amazzonia e incatenarsi tra i bulldozer e la preziosa foresta pluviale in modo da far conoscere al mondo intero l’ingiustizia che quella terra così esotica sta subendo. Da qui e per una serie di eventi che vengono gestiti con un buon ritmo e in modo nemmeno troppo banale, il variopinto gruppo di amici/colleghi si troverà completamente circondato da una di queste etnie native peruviane che tanto si stavano prodigando a proteggere, scoprendo loro malgrado, che la cultura del cannibalismo tra questi indigeni è una realtà più concreta e spaventosa che mai.

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Ecco in sostanza, la trama di Green Inferno, ultimo film di Eli Roth, non nuovo all’ horror e autore di semi-cult del genere come Cabin Fever (2002) e Hostel (2005), che ancora una volta tenta di descrivere una debolezza umana (in questo caso l’ipocrisia dei perbenisti) creando delle basi solide e credibili a quello che sarà poi l’exploit catartico di tutti gli avvenimenti, ovvero l’inizio dell’incubo a cui i giovani rivoluzionari dovranno in qualche modo sopravvivere. Chiaramente stiamo parlando di una produzione comunque molto lineare e schietta, che non si inventa granché ma che cerca di trascrivere con una regia moderna e una messa in scena genuina e artigianale gli stilemi del film di genere classico, e in questo caso specifico con l’evidente ispirazione al film di Deodato, Cannibal Holoucaust (1980). Una buona idea visto che il Cannibal Horror sembrava ormai estinto. Ovviamente le distinzioni sono d’obbligo, in quanto la dimensione ludica e sfacciatamente ricreativa di Green Inferno, nulla ha a che vedere con il taglio documentaristico della controversa opera di Deodato.

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Qui Eli Roth ci propone ancora una volta e nella sua forma più divertita, la sua vivida e macabra visione dell’horror, insiste sul dettagli disturbante, indugia sull’elemento carnale, in un tripudio di frattaglie sanguinolente distribuite con buon senso nell’arco del film, senza esagerare nel ripetere atti di violenza disinibita che avrebbero desensibilizzato lo spettatore e avrebbero portato il film verso i lidi del grottesco più becero, né al contrario disattendere le “perversioni” dell’amante del genere, come spesso fanno i film horror oggigiorno, tirando fuori al decimarsi dell’incauto e sfortunato gruppo di attivisti, uccisioni sempre piene di inventiva o spiazzanti, obiettivo tutt’altro che semplice da portare a termine ultimamente per i cineasti che si cimentano in questa impresa. A differenza di Hostel in cui la faceva da padrona un contesto tragico-drammatico fino alla fine del film, in Green Inferno si aggiunge un sottesto quasi comico o ironico, velato, quasi al punto di sembrare involontario (ma ovviamente non lo è). La scena del cadavere di una ragazza del gruppo riempito di nascosto di marijuana dai compagni prigionieri, per far sballare gli indigeni al loro prossimo spuntino ed avere così una chance di fuga, è quanto mai esplicativa in questo senso.

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Questo non toglie assolutamente carica e potenza suggestiva alle scene violente, che sono genuine e brutali, attente a incorniciare il disagio dei protagonisti vittime e spettatori, cosi come d’altro canto, a sollevare il nostro ogni volta che se ne presenti l’occasione. Il film infatti è capace di agitarti e farti ribaltare letteralmente lo stomaco, ma sa anche quando tirare il freno per farti riprendere con gli “elementi di contorno” che non sono mai lasciati a sé stessi, come una più incisiva personalità per i personaggi che seppur riconducibili sempre a quei 2 o 3 archetipi evidentemente necessari a innescare quelle dinamiche cinematografiche che esige il genere, sembrano quantomeno dotati di un cervello funzionante e sono interpretati dignitosamente. Green Inferno è un film artigianale, sicuro di sé e della sua identità, che pecca più che altro nel rimanere sterile di impatto sul finale non trasmettendo forse come avrebbe potuto il proprio messaggio sociologico e di non sconvolgere in alcun modo gli schemi limitandosi a fare semplicemente, ma piuttosto bene, il proprio lavoro.

Davide Salvadori
Cresco e prospero tra pad di ogni tipo, forma e colore, cercando la mia strada. Ho studiato cinema all'università, e sono ormai immerso da diversi anni nel mondo della "critica dell'intrattenimento" a 360 gradi. Amo molto la compagnia di un buon film o fumetto. Stravedo per gli action e apprezzo particolarmente le produzioni nipponiche. Sogno spesso a occhi aperti, e come Godai (Maison Ikkoku), rischio cosi ogni giorno la vita in ridicoli incidenti!