Miss Anthropocene, quinto album in studio della cantautrice Grimes, si interroga sulle divinità della nostra contemporaneità, tra cambiamento climatico e nuove tecnologie

Signore, signori, l’Antropocene è qui. Non che sia una novità, a dire il vero: il termine, dal greco anthropos (uomo) e kainos (recente), gira dalla metà degli anni ’70 e si spartiscono la paternità del neologismo un biologo statunitense, un chimico olandese e un geologo britannico. Ma, a essere onesti, l’Antropocene era qui ancora prima: c’è chi sostiene che l’Antropocene sia nato con l’uomo, nel momento in  cui questo ha iniziato a modificare l’ambiente attorno a lui con allevamento e agricoltura, non accontentandosi più di raccogliere ciò che la natura aveva da offrirgli.

Non si esce vivi dall’Antropocene

Fino a qualche anno fa, tuttavia, a parlare e sentir parlare di Antropocene erano al massimo scienziati e politici annoiati a conferenze sul cambiamento climatico, mentre il resto del mondo continuava a congratularsi l’un l’altro per aver smesso di produrre e usare dannosi deodoranti contenenti clorofluorocarburo, dandosi sonore pacche sulle spalle e festeggiando lo scampato pericolo del buco nell’ozono.

Ci sentivamo vincitori, ci sentivamo in grado di controllare il nostro impatto sul pianeta, poi la parola Antropocene (L’epoca geologica attuale, in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana, secondo la definizione Treccani) è scappata dai recinti delle conferenze noiose e si è insinuata nei nostri pensieri in compagnia di dati sullo scioglimenti dei ghiacci, preoccupanti previsioni per il futuro prossimo e capitani coraggiosi che fanno finta di non aver colpito nessun ostacolo mentre la nave affonda e l’orchestra continua a suonare.

antropocene

E adesso l’Antropocene si è infiltrato nella musica, nel cinema, nella letteratura, nei musei: l’Antropocene sarà la next big thing, come il millennial pink, ma in grado di accompagnarci all’estinzione. Ne sono esempi il progetto Antropocene Decadence del collettivo TINA, di prossima pubblicazione per Aguaplano, e l’ultimo concept album della cantautrice canadese Claire Elise Boucher, in arte Grimes.

Signorina Antropocene, dea della contemporaneità

Miss Anthropocene, dea di avorio e petrolio, è la villain dell’album, ma anche la voce (supportata da possente auto-tune) che grida e sussurra i mali del nostro tempo, intrappolati nel corpo di demoni cupi, apatici, egotici. L’album si apre con So heavy, I fell through the earth, una canzone molto personale, che viene presentata da Grimes come una canzone che parla di quando decidi di rimanere incinta, o accetti di rimanere incinta. È questa strana perdita di sé, o di potere, o qualcos’altro. Perché è come se la tua vita futura fosse subordinata a questa nuova vita, […] c’è una sorta di morte dell’ego associata a questa decisione. La donna, che sta al momento portando avanti una gravidanza, canta del fardello dell’amore, così pesante da far sprofondare fino al centro della terra, e nelle sue parole è facile ritrovare quell’abusata ma sempre d’effetto metafora della Madre Terra, su cui gravano sette miliardi di amati figli pronti a distruggere la propria madre. La teogonia di Grimes inizia con un concepimento, sia fatta la luce, siano creati i demoni.

Thanatos e altri dei minori

Dall’eros passiamo al thanatos: se con Darkseid (What does it take to be a survivor? / Your death becomes part of the eternal pain of my body) e Delete Forever (Cannot comprehend, lost so many men / Lately, all their ghosts turn into reasons and excuses) Grimes sembra farsi Terra, una Terra che piange la morte dei suoi figli, un più incisivo punto di vista sulla relazione tra la Terra e i suoi abitanti viene presentato in Violence, una canzone d’amore che sembra essere cantata dalla prospettiva della Terra, invischiata in una relazione abusiva e violenta con l’umanità (Baby, it’s violence / But you can’t see what I see / You can’t see what I see / ‘Cause you, ha, ha, you feed off hurting me). Del resto si parla degli stessi umani che aspettano con noncurante apatia la fine in My Name is Dark (So, we party when the sun goes low / Imminent annihilation sounds so dope).

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Quello di Grimes sembra un pantheon assai più vicino all’Ade che all’Olimpo, ma chi sono per la cantante i New Gods della canzone che più di tutte esplica la tesi di questo suo ultimo lavoro?

Nuovi dei, vecchi problemi

Secondo Grimes, è arrivato il momento di aggiornare la lista delle divinità disponibili creando figure moderne, divinità post-tecnologiche, numi tutelari della lussuria digitale (IDORU) e delle Intelligenze Artificiali (We Appreciate Power, canzone con cui si mette al riparo da future ritorsioni della AI conosciuta come Basilisco di Roko), in grado di guidarci nell’Antropocene e salvarci da noi stessi. But the world is a sad place, baby / Only brand new gods can save me canta Grimes, demandando la salvezza a un altro superiore e presentando una visione apatica e passiva dell’umanità, che attende invano una salvezza divina dopo aver umanamente creato danni irreversibili al pianeta.

Sebbene la fascinazione umana per il divino sia ancora ben radicata nelle società e il politeismo sia tollerato anche in culture monoteiste come quella di gran parte dell’Occidente sotto forma di storytelling (Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo, American Gods, per citare solo due dei prodotti più mainstream che sfruttano mitologie altre da quelle cristiane, islamiche, e ebraiche), affidarsi a vecchi o nuovi dei non ci aiuterà a salvarci.

Gli dei dell’uomo, l’uomo dio

Secondo Yuval Noah Harari, saggista e autore di Homo Deus – Breve storia del futuro, le nuove divinità post-tecnologiche sono già tra noi, e lo sono da quando è nato il concetto di umanesimo: abbandonando le religioni a favore del raziocinio, l’uomo diventa dio, sua è la suprema fonte del senso e più alta di ogni altra autorità è la sua libera volontà. Ecco allora che i nuovi comandamenti dell’Homo Deus si fondano sulla libertà: libertà di fare ciò che fa stare bene (se non nuoce ad altri), libertà a pensare con la propria testa, libertà a decidere ciò che è bello e ciò che non lo è, libertà a decidere in quale contesto politico vivere e far vivere i propri nipoti, libertà di controllare il mercato attraverso la propria domanda.

Esperienza e sensibilità sono andate a sostituire logica e Sacre Scritture. Se questa fosse la premessa di un romanzo, lo credereste un’utopia, vero? A quanto pare, però, elevare l’uomo a divinità è tanto fallace quanto pregare esseri oltremondani che vengano a salvarci dai nostri errori, o forse il tentativo di creare nuovi dei si sovrappone alla nostra stessa trasformazione in Homo Deus.

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Hands reaching out for new gods / You can’t give me what I want canta Grimes; ma chi può darci quello che vogliamo e, soprattutto, abbiamo bisogno di quello che vogliamo? Giocando con le parole, Miss Anthropocene rivela nelle sue canzoni nuove forme di misantropia, quella solitudine scontrosa che spinge l’uomo a non fidarsi del suo simile, a non socializzare con esso, a rivolgere inascoltate preghiere alle nuove divinità, facendogli credere che solo lui, eletto, è degno di parlare con quegli esseri superiori.

Così l’uomo resta solo, isolato, sperando che basti un solo piccolo miracolo di energia verde, o una singola scintilla di intelletto artificiale per redimere la sua specie. Lontano anni luce dal quadro generale, confidando in religioni laiche, pregando per la salvezza, senza muovere un dito.

 

Angela Bernardoni
Toscana emigrata a Torino, impara l'uso della locuzione "solo più" e si diploma in storytelling, realizzando il suo antico sogno di diventare una freelancer come il pifferaio di Hamelin. Si trova a suo agio ovunque ci sia qualcosa da leggere o da scrivere, o un cane da accarezzare. Amante dei dinosauri, divoratrice di mondi immaginari, resta in attesa dello sbarco su Marte, anche se ha paura di volare. Al momento vive a Parma, dove si lamenta del prosciutto troppo dolce e del pane troppo salato.