The Outer Worlds è stato ben accolto da pubblico e critica, più di quanto accaduto per Fallout 4 e Fallout 76. Da cosa dipende? Un paragone tra la struttura tradizionale (e vincente) da RPG presente in The Outer Worlds e l’innovazione deludente degli ultimi capitoli di Fallout
The Outer Worlds, pur essendo uscito nel bel mezzo di due titoli come Call of Duty: Modern Warfare e Death Stranding, è riuscito a ritagliarsi uno spicchio di successo tra il pubblico videoludico. Del resto, tutti gli appassionati di RPG attendevano l’opera di Obsidian, soprattutto coloro amanti della serie di Fallout rimasti scottati da Fallout 4 e Fallout 76. L’idea di una space opera dotata di umorismo cinico, tipico della tradizione del team di sviluppo californiano, affascinava non poco. Dico questo perché io stessa mi sono ritrovata nella situazione appena delineata.
Mi sono innamorata di Fallout e delle sue americane atmosfere nucleari con il terzo capitolo. Mi sentivo perfettamente immedesimata nei panni del Vagabondo Solitario, temendo i ghoul nascosti nei cunicoli delle metropolitane abbandonate, o sorridendo davanti alla bomba atomica venerata dai cittadini di Megaton. Un amore proseguito con Fallout New Vegas, che univa l’apocalisse nucleare all’immaginario western, con fazioni che guardavano all’impero romano o a Elvis Preasly. Il Fallout realizzato da Obsidian – la cui trama porta la firma di Chris Avellone – aveva tra i suoi meriti di riprendere la maturità di Fallout 2, e di approfondire il rapporto con i compagni, ognuno dotato di una storia personale memorabile.
Con i successivi Fallout 4 e Fallout 76, ritornati sotto lo sviluppo di Bethesda, l’essenza tipica della serie si è andata sgretolando, da una parte a causa di un open world stracolmo di missioni riempitive (e ripetitive) che hanno eliminato la profondità narrativa dei titoli precedenti, dall’altra per lo stravolgimento della struttura single-player della serie, snaturata per andare incontro alle esigenze da multiplayer online. Tra l’altro, paradossalmente, Fallout 76 presenta atmosfere più ispirate rispetto al quarto capitolo, derivate dalla mancanza di NPC. Nonostante infatti i grossi problemi tecnici che attanagliano l’ultima produzione di Bethesda, il post-apocalisse atomico raccontato dagli olonastri e dai terminali dell’Appalacchia fa quasi soffrire che non faccia parte di un tradizionale capitolo della serie.
Per tutte queste ragioni The Outer Worlds è stato ben accolto, perché rappresenta la genuinità e la passione verso un genere un tempo dotato di profondità narrativa e di meccaniche innovative, ma che attualmente ha regalato più delusioni che altro. Al di là della produzione di Bethesda, come dimenticarsi della disfatta di BioWare con Dragon Age Inquisition, Mass Effect Andromeda e Anthem? Titoli non brutti, ma decisamente sottotono rispetto alla qualità a cui siamo stati abituati in passato. Ecco dunque il riscatto con l’ultima opera di Obsidian. Ma c’è effettivamente stato un riscatto?
The Outer Worlds vs Fallout: quando tornare indietro fa bene
The Outer Worlds riprende in parte l’americanismo retro a là Fallout, ma lo riporta all’inizio del XX secolo, reinterpretandolo in salsa Sci-Fi. Ci ritroviamo dunque in un sistema solare diverso da quello della Terra, dove i pianeti non sono altro che colonie dirette da mega corporazioni. A noi, coloni sopravvissuti, spetta la scelta se cedere alla crescita economica o al ripristino di una società basata su valori morali. Il tema centrale attorno a cui ruota The Outer Worlds è il mondo del lavoro, rappresentato in maniera esasperata e inquietante, come monito verso un futuro non troppo distante dalla realtà. Basta la prima ora di gioco per sentirsi contagiati dal senso di oppressione che regola l’universo di gioco. Il tutto però è trattato attraverso il cinico umorismo già menzionato. Sorridiamo – amaramente – mentre i diversi personaggi, anche anonimi incontrati al bar, ci sbattono in faccia la realtà surreale che si ritrovano a vivere. Di conseguenza, nonostante il nostro coinvolgimento, viviamo le diverse vicende di The Outer Worlds da una prospettiva più distaccata, che ci fa sì riflettere, ma allo stesso tempo sorridere.
Questa visione non è esclusiva della space opera di Obsidian, ma è già evidente in Fallout. Ciò è dovuta all’ambientazione, che riprende gli Stati Uniti della Guerra Fredda (o di inizio Novecento nel caso di The Outer Worlds), e li trasporta in un futuro lontano, trattando però tematiche a noi vicine (schiavismo, progresso, tossicodipendenza, e così via). Se da una parte quindi Fallout ripropone perfettamente l’American Way of Life di fine anni Quaranta da opporre al comunismo sovietico (cinese nel caso del gioco), The Outer Worlds guarda invece alle corporations fondate a inizio XX secolo da magnati dell’industria come John D. Rockfeller o Andrew Carnegie, in un’epoca in cui cominciava a germogliare il concetto di sciopero e di sindacati. Riporto un passo tratto da “Il secolo degli Stati Uniti” dello storico Arnaldo Testi per lasciare trasparire la vicinanza di The Outer Worlds alla realtà:
“Erano capitani d’industria interessati alla redditività, efficienza ed espansione delle loro imprese; a tal fine promossero innovazioni nell’organizzazione della produzione e del lavoro e nei metodi di direzione e gestione aziendale. Ma per raccogliere i capitali necessari a queste operazioni, e per governare le loro aggressive strategie espansive, promossero anche spregiudicate innovazioni finanziarie. Fondarono reti di corporations di cui mantennero il controllo con strumenti societari sofistificati, talvolta fantasiosi, ai limiti della legalità”
E ancora:
“Le società si fusero fra loro perché operavano in settori complementari appartenenti alla stessa filiera: la Carnegie Steel Company, per esempio, comprò miniere di carbone e ferro per alimentare le sue acciaierie senza dipendere da fornitori esterni. Oppure si fusero perché operavano nello stesso settore: la Standard Oil Company di Rockfeller acquisì le raffinerie di petrolio concorrenti e raggiunse una posizione quasi monopolistica”
Praticamente quanto riportato dallo storico riguardo gli Stati Uniti della seconda rivoluzione industriale è The Outer Worlds. Il titolo di Obsidian riprende situazioni caratteristiche del passato statunitense per criticare il presente. Fateci caso: viviamo dentro una società diretta ancora da magnati, adesso rappresentanti dai brand della tecnologia come Google, Amazon e Facebook. Grazie all’ironia sprezzante, alla collocazione lontana nel tempo, e alla riproposizione di eventi e fenomeni storici americani, la space opera riesce a coinvolgerci nelle sue atmosfere. È un aspetto presente anche in Fallout. Prendendo come riferimento il quarto capitolo, ci sono diversi riferimenti al razzismo nei confronti delle minoranze, come la fazione dei Railroad che rimanda allo schiavismo degli afroamericani, o il razzismo contro i ghoul nella città di Diamond City che al contrario rimanda alla recente ondata xenofoba che ha colpito parte della società americana.
La differenza sostanziale tra The Outer World e Fallout 4 sta nel fatto che il primo, grazie a un’impalcatura narrativa ben solida, segue le regole canoniche del genere RPG, senza mettere per forza componenti come il farming che abbiamo visto in Fallout 4. Inoltre, ci si affeziona subito ai personaggi secondari, e siamo disposti ad atterrare su un pianeta pur di comprare il sapone a una nostra alleata innamorata. La differenza tra i due brand sta proprio in questo: creare un’atmosfera travolgente che ci spinga ad esplorare, a parlare con tutti i personaggi incontrati, riportando in auge l’essenza degli RPG. Fallout sembra ormai aver dimenticato tutto questo, pur usando tecniche assodate come la reinterpretazione del passato. The Outer Worlds invece, nonostante tutti i limiti di una media produzione, riesce nel suo intento di raccontare una storia a tratti lontana a tratti tremendamente vicina alla nostra realtà. In questo modo l’opera di Obsidian, grazie a una cura narrativa che non osa ma risulta appassionante, riesce in un certo senso a superare l’eredità di Fallout, una serie che oramai si fa forte solo della sua iconografia, e quando tenta di innovarsi guarda a modelli che non gli competono.