Il fascino e il timore per gli hāfu dell’opinione pubblica
Emarginati e allo stesso tempo celebrati dall’opinione pubblica giapponese, gli hāfu – nipponizzazione di half, da half-blood “mezzosangue” – rappresentano ancora oggi una presenza scomoda per il senso di identità e unità nazionali, oggetto di rappresentazioni mediatiche e culturali il più delle volte parziali, che raramente si azzardano a grattare la superficie per analizzare le differenze intercorrenti tra le diverse comunità di giapponesi “a metà”. Cercando di mettere da parte le spiegazioni di ordine culturalista circa l’innata chiusura e omogeneità del popolo Yamato, proviamo di seguito a capire da dove trae origine questo timore/attrazione per gli hāfu e come esso si sia concretato in alcune manifestazioni della cultura pop non troppo note al grande pubblico.
All’origine del pregiudizio: gaijin e hāfu
Prima di poter parlare propriamente di hāfu, dobbiamo fare anzitutto un passo indietro e riflettere sul significato intimo della parola gaijin, nella lingua contemporanea utilizzata per riferirsi indistintamente agli stranieri di ogni provenienza, a prescindere dalla loro origine etnica. Questo aspetto è stato astutamente sottolineato dal governo giapponese a partire dalla fine dagli anni Novanta, nello stesso periodo in cui il paese, perduto il primato economico a causa dello scoppio della bolla speculativa, iniziò ad adottare una strategia di soft power nota come Cool Japan, con cui ricostruire la propria immagine agli occhi della comunità internazionale. Nello specifico, il fatto che il termine gaijin si potesse utilizzare per tutti coloro che “provengono da fuori”, senza fare distinzioni tra colore della pelle, appartenenza religiosa o linguistica, fu strumentalizzato per dimostrare la sostanziale apertura dei giapponesi all’Altro in senso globale, sul quale non ricadrebbero i pregiudizi razziali riscontrabili invece nel pur democratico Occidente.
In realtà, da un punto di vista storico sappiamo che la lingua giapponese, in seguito ai contatti con gli europei e gli statunitensi in età moderna, ha prodotto un’incredibile varietà di epiteti per i “barbari del Sud” giunti a interrompere l’isolamento diplomatico dell’Arcipelago, e che fu soltanto in periodo Meiji – ovvero, la fase di ristrutturazione dello Stato, dei costumi e dell’economia su modello occidentale – che il termine gaijin si impose quale lemma dominante, allo scopo di sottolineare, in senso nazionalistico, coloro che non facevano parte dell’Impero del Sol Levante, la cui continua espansione rendeva lo spettro semantico abbastanza fluido, dal momento che, dai mancesi ai coreani, sempre più popoli finivano per diventare sudditi dell’imperatore, arrivando dunque a partecipare dello statuto di “giapponesi”. Tuttavia, nonostante la popolarità dell’ideologia panasiatica, il termine gaijin avrebbe continuato a essere utilizzato per distinguere coloro che erano nati nel cuore dell’Impero da chi invece vi era stato integrato solo in un secondo momento, recuperando la sfumatura di “estraneo” e “non affine” che la parola possedeva nella letteratura medievale – dove ne ricorrono le prime attestazioni.
Più in concreto, basta leggere la cronaca nazionale per capire che gli stranieri in Giappone non godono affatto di un trattamento uniforme, e che la lingua stessa riflette in parte la pesante eredità del periodo coloniale e postbellico: esistono infatti specifici racial slur per coreani, cinesi e afroamericani, mentre lo stesso non si può dire per le nazionalità tradizionalmente associate alla whiteness, la cui diversità è spesso trattata, con molto ingenuità, come un pregio a prescindere.
Questo ci riporta necessariamente agli hāfu, figli di coppie miste – in giapponese si usa spesso la formula kokusai kekkon, “matrimonio internazionale” – composte da un gaijin e un giapponese, la cui problematicità si potrebbe spiegare alla luce della supposta inconciliabilità tra la questione razziale e la questione identitaria.
Gli hāfu come personificazione dell’unità
Il nipponista Alex Kerr, che nonostante la comune nazionalità dei genitori ha sempre vissuto culturalmente in bilico tra Stati Uniti e Giappone, ha cercato di dare una propria spiegazione al rapporto mantenuto da quest’ultimo con l’esterno e al processo di assimilazione degli elementi estranei: complice la particolare collocazione geografica, l’Arcipelago è stato per gran parte della sua storia protetto dai flussi migratori, e quindi dal contatto diretto e indiscriminato con altri sistemi di valori e culture. Di conseguenza, ciò che riusciva a entrare nel paese, per frutto di eventi fortuiti o per volere della classe dirigente, veniva trasformato in un artefatto culturale che manteneva soltanto alcune delle coordinate originali, perdendo la sua “essenza” per diventare a tutti gli effetti una “perla giapponese”.
Abbiamo aperto il pezzo ripromettendoci di guardarci dalle teorie essenzialiste, ragion per cui è bene prendere con le pinze le posizioni estetizzanti di Kerr e la loro fondatezza scientifica: a ogni modo, si deve effettivamente riconoscere che i processi formativi che hanno condotto alla maturazione della cultura giapponese sono sempre stati caratterizzati dalla netta separazione spaziale tra luogo d’origine e luogo di destinazione: le grandi innovazioni in ambito religioso, artistico, scientifico, sono state infatti diffuse da studiosi o pellegrini stranieri in viaggio nell’Arcipelago, o viceversa riportate in patria da altrettanti studiosi o pellegrini dopo un lungo soggiorno di formazione all’estero, senza che vi fosse un vero “travaso di civiltà” né in un senso né nell’altro.
Adattando queste considerazioni al caso degli hāfu, si può dire che essi rappresentino il luogo ideale in cui due diversi modi di intendere la vita e di vedere il mondo si intersecano indissolubilmente, rendendo impossibile a priori la separazione spaziale che sta alla base del processo di assimilazione caratterizzante la cultura nipponica.
Un prodotto che, pur con una certa vena sensazionalistica, riesce a raccontare questa supposta unità e le deviazioni da essa prodotte è il documentario di Prime Video Hāfu: The Mixed-Race Experience in Japan (2013), realizzato a quattro mani da due videomaker toccate in prima persona dai temi trattati. Al di là degli episodi di razzismo, discriminazione o bullismo riportati dagli intervistati – nulla di nuovo per chi conosce alcuni titoli del cinema giapponese sulle minoranze come Swallowtail Butterfly (1996) o Blue Fish (1998) – , quello che è interessante notare è come ciascuno dei protagonisti affermi di avere a suo modo problemi a relazionarsi con le proprie radici: c’è chi cerca di stabilire un legame con il suo secondo paese d’origine, con il quale non ha però mai avuto contatti; c’è chi, raggiunta l’età adulta, decide di trasferirsi definitivamente in Giappone, entrando in contatto con elementi culturali che non riesce a comprendere fino in fondo; c’è chi, scoperto in un secondo momenti di essere hāfu, inizia a mettere in dubbio la propria identità.
Al contrario, l’immagine degli hāfu propinata dai media generalisti, sempre pronti a mettere in bella mostra il grado di internazionalizzazione (kokusaika) di un paese ancora drammaticamente chiuso agli stranieri sul piano legale, è quella di individui dalla bellezza fuori dal comune, benestanti e in grado di vivere con agio in Giappone senza sottostare alla pressione sociale e allo stress che caratterizzano la quotidianità dei comuni cittadini. Come abbiamo visto, invece, chi viene arbitrariamente identificato dall’esterno come hāfu non è né necessariamente un privilegiato – più spesso è anzi l’esatto opposto –, né gode di un’armonia interiore che gli permette di interfacciarsi serenamente con la comunità cui appartiene – o a cui la gente crede appartenga.
La scarsa rappresentazione degli hāfu nella cultura pop
In questo senso, non stupisce come l’animazione e il fumetto giapponesi si siano ingegnati a trattare la diversità dando vita a una pletora di eroi mezzosangue appartenenti a razze diverse (lupi, demoni, alieni) anziché a personaggi hāfu, esseri umani in tutto e per tutto ma giapponesi solo per metà: anche nelle opere di fantasia, risulta insomma più facile riassorbire nell’alveo della cultura giapponese un soggetto quasi totalmente estraneo alla sfera umana, piuttosto che normalizzare un individuo intimamente – per non dire geneticamente, come purtroppo si sente ancora dire – legato a una cultura o a una lingua diverse.
In controtendenza rispetto a questa rappresentazione dell’ibrido, in cui talvolta si può scorgere la riproduzione del nesso razzistico tra purezza giapponese e umanità, si pone l’opera del mostro sacro del manga Buronson – noto anche col secondo nome d’arte Shō Fumimura –, il quale, affiancato da Ryōichi Ikegami in veste di disegnatore, è riuscito a dare un volto e una storia credibili a diversi personaggi hāfu memorabili nel corso della sua carriera.
L’esempio più illustre è sicuramente Strain (1996-98), ambientato a Kuala Lumpur e incentrato – come suggerito dal titolo – sulla lotta per la successione all’interno di un’associazione criminale a conduzione familiare. L’antagonista principale, incaricato di far fuori uno dei legittimi eredi, è Angel, un poliziotto corrotto figlio di una prostituta malese e di un soldato americano: discriminato sin da piccolo per il suo aspetto e per i trascorsi della madre, egli realizzò presto che la violenza era l’unico modo per proteggere se stesso e il suo unico affetto. Questo almeno fino all’incontro con Mayo, un killer giapponese appartenente alla potente famiglia Kusaka che ha preferito l’esilio al coinvolgimento nei giochi di palazzo: il suo progetto di ristrutturazione del mondo criminale, orientato alla protezione dei più deboli e alla collaborazione tra i gruppi etnici, convince Angel a cambiare fazione per garantire un futuro più sereno a chi, come lui, non può beneficiare di un senso di appartenenza né della protezione di uno specifico gruppo sociale.
Ancora più massiccia è la presenza di hāfu in Heat (Shakunetsu, 1999-2004), dove si racconta della scalata verso il potere di Tatsumi Karasawa, proprietario dello host club Shinjuku Sokai, nel distretto di Kabukichō – quartier generale di diversi gruppi yakuza della Tokyo odierna. Sfidando a viso aperto le forze dell’ordine e i mafiosi delle più svariate etnie, Tatsumi intende trasformare il suo club e ciò che vi sta attorno in una enclave indipendente, una piccola città-stato i cui membri sono protetti dai soprusi e dalle pressioni esercitate dalle associazioni criminali che spremono quotidianamente i lavoratori dell’economia sommersa di Kabukichō. Per quanto collaterali al protagonista, di volume in volume emergono i difficili trascorsi degli zainichi (lett. “residenti in Giappone”) impiegati presso il locale, come Kim, di madre coreana ma nato e cresciuto a Tokyo, o Tan, un mezzo cantonese che tradisce la triade per proteggere Karasawa: ad accomunare questi e altri personaggi hāfu, divisi tra gli ideali propugnati dal carismatico proprietario del club e il senso del dovere nei confronti dei propri “compatrioti”, si pone il senso di disorientamento e di inferiorità che li ha accompagnati per tutta il loro periodo di residenza in Giappone, impedendo loro di integrarsi e di avere una vita normale, come anche di sviluppare un sincero attaccamento verso una qualche “patria”.
Come abbiamo visto, la presenza degli hāfu è tristemente ridotta nell’ambito della cultura pop, non da ultimo a causa della mancata problematizzazione da parte dei media, per i quali essi costituiscono delle fortunate eccezioni che vivono al di sopra – o al di fuori – del consesso sociale. Tuttavia, se si guarda agli attuali trend demografici e alla graduale apertura che il Giappone sarà costretto a concedere per rimpolpare la propria forza lavoro, è lecito supporre che gli hāfu arriveranno presto a costituire una voce di primo piano all’interno della società nipponica, che gli esponenti della controcultura, come anche le grandi produzioni mainstream, sicuramente non mancheranno di ascoltare e portare all’attenzione del pubblico. Insomma, dovremo pazientare ancora un po’, ma è sicuro che il risultato sarà interessante.