Negli ultimi anni le grosse aziende di videogiochi stanno guardando più seriamente al cinema e alla televisione
e trasposizioni dei videogiochi al cinema esistono ormai da trent’anni, da quando nel 1993 uscì in sala il Super Mario Bros. interpretato da Bob Hoskins. Un film che voleva sfruttare il successo della neonata industria videoludica e della sua mascotte per eccellenza, ma che risultò invece un fallimento sia dal punto di vista della qualità che del successo al botteghino. Nel corso degli anni abbiamo visto più volte i nostri adorati franchise videoludici venire adattati attraverso altri media. Abbiamo avuto i film di Tomb Raider con Angelina Jolie, il fumetto di Doom pubblicato dalla Marvel o ancora romanzi su titoli che non ci si aspetterebbe come il primo God of War per PlayStation. Questa esistenza intermediale è sempre esistita ma, soprattutto per quanto riguarda il mercato occidentale, non ha mai trovato un vero spazio per crescere economicamente. È solo nell’ultimo periodo che l’adattamento extra-videoludico sta prendendo una piega nettamente più incisiva. Tante cose sono cambiate dall’epoca, e da anni ormai l’industria videoludica è diventata la più remunerativa del settore dell’intrattenimento. Grazie anche all’enorme diffusione delle piattaforme di streaming, è naturale che le compagnie abbiano iniziato a guardare più seriamente agli adattamenti videoludici. E il perché è presto detto.
Le aziende videoludiche vogliono capitalizzare ancora di più sui propri brand, e per raggiungere questo obiettivo stanno sfruttando sempre meglio la portata mediatica e culturale che cinema e tv possono portare rispetto a quella del mondo videoludico. Come sottolineato recentemente in un’intervista anche dall’ex CEO di Sony Interactive Shawn Layden, sebbene i videogiochi portino più profitto rispetto ad altri settori dell’intrattenimento, il loro impatto culturale non è minimante paragonabile. Per fare un paio di esempi molto terra terra, pensate a quante persone adesso in Italia hanno visto Squid Game o conoscono la musica di Blanco, il neo vincitore di Sanremo. Pensate invece a quanti conoscono Warcraft o Roblox: due produzioni nettamente più profittevoli dei due prodotti culturali citati sopra, eppure infinitamente più sconosciuti.
La soluzione che si sta parzialmente adottando a questo “problema”, è quella di trasporre le proprie proprietà intellettuali anche altrove. L’intenzione è quella di creare dei franchise che esistano attraverso diversi media: dai più tradizionali fino anche alla giostra a tema. Due delle attrazioni principali dei parchi di Disneyland, per esempio, sono stati adattati in serie cinematografiche con risultati miliardari: si tratta della saga dei Pirati dei Caraibi e del recente Jungle Cruise con Emily Blunt e Dwayne Johnson. Nel caso specifico di Disney, i maggiori introiti della azienda non provengono infatti necessariamente dai botteghini cinematografici, ma da tutti i prodotti collegati alla specifica opera. In questo modo, il film in sé per l’azienda non diventa altro che una grossa pubblicità: un “traino” per vendere anche il fumetto, la serie e il videogioco correlati; oltre che alla miriade di prodotti di merchandising che parte da magliette e pupazzi e arriva fino a succhi di frutta e panini del McDonald’s.
L’obiettivo delle grosse aziende videoludiche, è quindi quello di trasformarsi in icone culturali riconoscibili non solo dal proprio pubblico di videogiocatori, ma da tutti quanti. Non è un caso che i due maggiori successi di film per il cinema tratte dai videogiochi negli ultimi anni siano stati Pokémon: Detective Pikachu e Sonic – Il film: due opere tratte da saghe decennali che proprio grazie alla diffusione intermediale delle proprie mascotte, hanno ricevuto una risonanza mediatica tale da renderli icone riconoscibili ormai da chiunque. Nel caso più specifico di Pokémon infatti, stiamo parlando del franchise d’intrattenimento più profittevole di sempre. Si tratta di capitali che non provengono meramente dalla vendita dei videogiochi, ma anche dalle carte, i film d’animazione e soprattutto dai guadagni dei Pokémon Center: negozi che vendono esclusivamente merchandise Pokémon e che vanno molto in voga soprattutto in Giappone.
Sony per esempio è l’azienda che più di tutte sta cercando di esportare i propri brand PlayStation in altri media. In una notizia del 2020, si diceva che Sony era a lavoro su tre film per il cinema e ben sette trasposizioni per la tv tratte dai propri videogiochi, di cui abbiamo ora diverse notizie. Sono infatti attualmente in lavorazione un film su Ghost of Tsushima dal regista di John Wick; una serie HBO su The Last of Us; una serie su Twisted Metal con Anthony Mackie e un film su Uncharted in procinto di uscire nelle sale. Si tratta di portare “l’esperienza PlayStation” anche a quel pubblico non famigliare con i videogiochi Sony (o con i videogiochi in generale), e di piazzarsi così anche in un’altra enorme fetta di mercato.
Anche altri studios si stanno muovendo in questa direzione: Amazon sta producendo una serie su Fallout, Paramount Plus un’altra su Halo e Netflix ha in produzione degli show su Assassin’s Creed, Resident Evil e Cyberpunk 2077. In poche parole, il mero mercato videoludico sta iniziando a diventare troppo stretto per le grandi aziende. E uno dei motivi principali di questo cambiamento è, come già detto, la diffusione delle nuove piattaforme streaming che permettono un sistema di fruizione in una scala più ampia e in grado di intercettare anche l’utente non familiare con certi brand videoludici.
Un secondo motivo potrebbe celarsi anche dietro alla insostenibilità delle produzioni ad alto livello. Non è un caso infatti che siano quasi esclusivamente titoli tripla A a vedersi trasposti in altri mercati: i giochi stanno diventando sempre più grossi e costosi, ed è una decisione di marketing abbastanza obbligata quella di sfruttare i propri brand a 360 gradi. Che sia questo per trainare gente poi sui propri videogiochi o per creare un franchise intermediale in grado di evolversi anche in altre direzioni. Tra rinvii e cultura del crunch, il mercato tripla A sta diventando insostenibile per tutti i piani dell’industria, con Sony leader di questa migrazione mediatica; e che sta già correndo ai ripari sul piano videoludico per trovare nuove fonti di guadagno sostenibili a lungo termine (la recente acquisizione di Bungie e la messa in produzione di ben dieci titoli live service entro il 2026, non sono un caso).
È anche vero che ormai non sono solo le produzioni ad alto livello a portare i propri brand su altri media: sono in arrivo infatti anche uno show su Cuphead e un altro su Disco Elysium. Ed è una decisione commerciale più che comprensibile, visto che questa esportazione culturale si è già dimostrata riuscita in più di un caso. A novembre 2021, Arcane: League of Legends è stata la serie più vista negli Stati Uniti, mentre il videogioco The Witcher 3: Wild Hunt ha raggiunto il suo picco di giocatori su Steam quando ne è uscita la serie di Netflix (picco poi superato nuovamente all’uscita della seconda stagione). Per le aziende videoludiche si tratta di una scommessa sicura per amplificare il proprio impatto nella cultura popolare; per aumentare la cosiddetta brand awareness, ovvero la consapevolezza collettiva che il pubblico ha di un marchio.
In conclusione, è vero che questa diffusione intermediale si è sempre praticata, ma è innegabile che sia questo il momento in cui l’esportazione dei videogiochi al cinema e in televisione avrà un ruolo cardine nel futuro dell’industria. È evidente che il futuro dei nostri amati franchise videoludici non si evolverà solamente pad o tastiera alla mano.