Hannibal è non è adatta a stomaci deboli, ma è una serie da vedere per bearsi della sua magnifica scrittura ed estetica
Hannibal non è una serie che consiglierei di vedere a tutti. Ma chi ha uno stomaco forte e non è intollerante alla carne umana, troverà nell’opera di Bryan Fuller una serie da vedere ad ogni costo: per la sua scrittura sontuosa, per i suoi personaggi magnetici e per un’estetica lisergica che fluttua tra il reale e l’onirico. Nei cunicoli tortuosi di una mente ben al di là del pensare e vivere umano.
Ci si muove nei meandri della psiche, nel buio della ragione, dove vivono gli istinti più cupi e in cui l’agire etico si frantuma e banchetta con le più bieche perversioni umane.
Se siete pronti a questo simposio, tra psicologia, filosofia e cannibalismo, accomodatevi. Ecco cinque motivi per vedere la serie Hannibal. Con l’auspicio che, dopo l’arrivo sulla piattaforma statunitense, Netflix Italia accolga nel proprio palinsesto questo capolavoro del piccolo schermo.
Un banchetto per occhi e mente
L’evoluzione del prodotto seriale televisivo ha avuto un’impennata qualitativa ad inizio millennio. Lost docet. Alcune peculiarità mutuate dalla settima arte hanno rivoluzionato e nobilitato le serie tv, che hanno raggiunto l’empireo narrativo e visivo. Uno dei motivi per cui recuperare e vedere la serie Hannibal è proprio la sua anima autoriale.
La mente di Bryan Fuller costruisce situazioni e personaggi sontuosi, delineati con dei meccanismi che rasentano la perfezione della scrittura narrativa. La profondità psicologica e la credibilità scenica che emergono in ogni episodio palesano studi approfonditi nell’ambito medico e una maestria assoluta nel giostrare i rapporti morbosi che popolano la serie. Tutto danza sul filo tra realtà e proiezione mentale, in un vortice psicotico in cui la devianza sfuma e riplasma l’essere umano.
Se lo script è travolgente, altrettanto si può dire dell’aspetto visivo che eleva Hannibal ad una delle serie esteticamente più belle da vedere. L’occhio è costantemente rapito nelle pennellate oniriche che animano molte sequenze dell’opera. La fotografia è rarefatta e proietta in un altrove che diventa psichedelico. Ci si trova all’interno di un sogno, che poi viene improvvisamente e violentemente catapultato in una realtà cruda e color scarlatto.
Perturbante e affascinante come poche altre, Hannibal è una serie da vedere con lo sguardo e la mente sempre attivi. Per godere a pieno di un gargantuesco banchetto visivo.
Nessuno resiste ad Hannibal Lecter
La quarta reincarnazione e interpretazione del killer cannibale partorito dalla mente dello scrittore Thomas Harris difficilmente sarà dimenticata dagli amanti della saga.
Dopo le interpretazioni di Brian Cox (Manhunter – Frammenti di un omicidio), da Anthony Hopkins (Il silenzio degli innocenti, Hannibal, Red Dragon) e di Gaspard Ulliel (Hannibal Lecter – Le origini del male) il danese Mads Mikkelsen nel giugno del 2012 accetta la parte e da quel momento inizia un mastodontico percorso di riformulazione del personaggio.
L’eredità di Hopkins incombeva e proiettava un’ombra in cui inseguire lo stesso percorso recitativo sarebbe stato un déjà-vu sfocato. L’attore, scoperto e lanciato da Nicolas Winding Refn con la trilogia The Pusher, reinventa, grazie alla scrittura di Fuller, completamente Hannibal Lecter, donandogli caratteristiche fisiche e caratteriali inedite. E la sua interpretazione è già di per sé un valido motivo per vedere la serie Hannibal.
L’efferatezza e la sua disturbata visione del corpo umano sono ribaltate da un portamento impeccabilmente elegante e da un tenore intellettuale prestigioso. Lecter riconosce la sua devianza e il proprio istinto. Le sue perversioni non vengono tenute cautamente sotto controllo, ma vengono amplificate.
La caduta negli inferi e nell’abisso più tetro si ribalta nel giocare a fare Dio e a mangiare le sue pedine. Piccoli scacchi che fanno parte di un disegno più grande, in cui Lecter trasforma l’etica in pura estetica. La sua fame si ciba della società, che perde i suoi deboli connotati umani e diventa un compromesso per alimentare un ego-mostro insaziabile.
Will Graham e il gioco delle parti
Quello che rende Hannibal una crime story sui generis è sicuramente il rapporto atipico tra il killer e l’agente FBI. Il legame che si crea tra Hannibal Lecter e Will Graham è un affresco psicologico dalle sfaccettature criptiche, torbide, ma tremendamente suadenti. Raramente si è visto in una serie tv un incontro tra due personaggi così ben congegnato. Tra i due si instaura uno degli archetipi razionali e psicologici più malati: il doppio legame narcisistico.
L’ars manipolatoria di Lecter incontra sul suo percorso i molteplici lati e spigoli del prisma mentale di Will. La diffidenza con cui Graham approccia Lecter è una miccia che innesca la curiosità del dottore cannibale e dà il via ad un morboso rapporto che alterna attrazione e idiosincrasia.
La capacità mimetica intellettuale di Graham è sia il ribaltamento che il completamento delle subdole ambiguità di Lecter. I due sono protagonisti solitari in una landa psicologica che rifugge il sociale e cerca altrove la propria completezza. Se Graham è un essere errante e insicuro, il dottore è conscio del proprio folle cammino.
In Hannibal implode la fortezza dei cliché e peculiarità del genere, diventando qualcos’altro. I rapporti canonici si ribaltano, invertendosi in continuazione. Quello che dovrebbe essere una classica caccia tra due nemesi si trasforma in un rapporto di co-dipendenza che porta ad un equilibrio morboso. L’assuefazione, l’istinto e la rivelazione della propria natura sono temi che ricorrono e tormentano preda e cacciatore in Hannibal. In una ciclica rincorsa al vero io.
Gli invitati al simposio
Oltre alle immense interpretazioni di Mads Mikkelsen e Hugh Dancy nei panni di Hannibal Lecter e Will Graham, il resto del cast partecipa egregiamente a questo banchetto per mente e sguardo organizzato dal dottore antropofago.
La psicologa Alana Bloom (Caroline Dhavermas) e l’agente dell’F.B.I. Jack Crawford (Laurence “Morpheus” Fishburne) muovono i loro passi intorno alla macabra danza intellettuale portata avanti dai due protagonisti. Ma il loro incedere non è mai marginale e si incastra perfettamente con l’irrefrenabile follia che avvolge killer e agente.
Sono tutte pedine inconsapevoli di un piano lucido e malato di una mente che non convive nella stessa galassia umana e sentimentale. Spazialmente e apparentemente convivono negli stessi luoghi, scene del crimine, banchetti, ma chi si interfaccia con Lecter si muove lungo invisibili trame e ragnatele mentali che lui tesse per compiacere il proprio io malato. La collega psichiatra Bedelia Du Maurier, interpretata da una Gillian Anderson in stato di grazia, è l’esempio lampante del potere mesmerizzante del dottore.
Il piacere di cucinare umani
Le cene galanti organizzate da Lecter si trasformano in veri e propri simposi, in cui si dialoga di arte e filosofia. Si sonda la mente e i suoi inarrivabili paradigmi. Un trionfo della cultura, in cui si spazia in ogni campo dello scibile umano. Ma la costante è il cibo, elevato al suo rango più alto.
Vedere una serie come Hannibal richiede uno stomaco forte, perché seppur avvolto da un’aura poetica la cucina antropofaga di Lecter può risultare davvero disturbante.
L’elemento spiazzante, orrorifico ma allo stesso tempo ammaliante di Hannibal è il modo in cui viene dipinto e onorato il cibo. I banchetti sono a base di carne umana, ma il modo in cui viene dipinta l’estasi culinaria dissimula la sua sconcertante origine.
Le scene in cui Lecter prepara i suoi pasti sono un inno alla nouvelle cuisine, in cui cucinare è elevato al rango artistico più alto. I fornelli e gli utensili da cucina sono come pennelli e colori, con cui lo chef dà vita e alimenta il proprio disturbo mentale.