Reboot e cinema: un binomio tanto discusso
Molto cinema americano, ammettiamolo, è come il cibo da fast food: sai che fa male, ogni volta giuri che è l’ultima, ma non puoi farne a meno. Se poi consideriamo che alcuni piatti, riscaldati, sono ancora più buoni, ecco che abbiamo dato un senso al dilagante fenomeno del reboot. Si può riprendere un film nato fuori dalle cerchie occidentali, o rispolverare cult di venti, trent’anni fa, sistemarli con una nuova veste, magari invertire questo o quell’altro fattore ed il gioco è fatto. O quasi.
Quest’anno, alla 75esima Mostra del Cinema di Venezia, c’è stato il remake, revival di Suspiria, cult del 1977 di Dario Argento la cui nuova versione è firmata da Guadagnino. Il titolo, che era tra i più attesi della manifestazione, è solo l’ultimo di una lunga serie di operazioni di restauro – per così dire – di film di grande successo. Pensate ad un film che è diventato icona, cult, punto di riferimento per una generazione: ecco che ad Hollywood si sta pensando (o si è pensato) a un reboot.
Prima di andare avanti, va chiarita la differenza che c’è tra i vari termini a cui faremo riferimento d’ora in poi. Dicasi reboot la riscrittura di un franchise, in un’ottica di rilancio di immagine, quindi fuori continuity. Remake è, invece, il rifacimento più o meno fedele di un film, mentre spin-off è coerente con la continuity e affronta il franchise senza metterlo in discussione. Infine abbiamo i live action, versioni con attori in carne e ossa (o animali in computer grafica) di classici a cartoni animati. Tutti, in ogni caso, partecipano al fenomeno di rivisitazione di idee già note al grande pubblico.
Ma quali sono gli esiti artistici di questa tendenza? Quante volte il gioco vale la candela e possiamo dire che – in effetti – rifare un classico sia stata una buona idea? Stando alle reazioni di pubblico e critica, quasi mai il reboot ha superato l’originale: certo, quando lo scopo è portare la gente al cinema e non necessariamente farla uscire contenta e soddisfatta, il risultato finale passa in secondo piano rispetto all’hype che si riesce a creare. Ma non è, questa, una deriva eccessivamente commerciale del mezzo cinematografico?
Tuttavia, classificare i reboot come operazioni esclusivamente commerciali, senza considerare una panoramica sui suoi esempi più eclatanti potrebbe essere affrettato. La quantità di varianti con cui questo fenomeno ha preso piede, in effetti, presta il fianco a numerose altre riflessioni.
Prendiamo, ad esempio, il gender swap reboot, ovvero quei film – alla Ghostbusters del 2016, per intenderci – in cui l’originale è ri-scritto per delle protagoniste femminili. Nata in Giappone, come pratica prevalentemente della fanbase dei vari manga e anime, il gender swap è diventato una moda sempre più esplorata dalle produzioni americane, che hanno in cantiere diversi progetti di tal genere (e scusate il gioco di parole).
Un caso analogo lo troviamo anche nell’ultimo capitolo della saga degli Ocean, Ocean’s 8, in cui la sorella del personaggio interpretato da George Clooney ha il volto plasticoso di niente di meno che Sandra Bullock. L’eroina della commedia sentimentale anni ’90 è qui Debbie, un’esperta di colpi ultra-complicati da milioni e milioni di dollari; al suo fianco troviamo un cast stellare composto tutto da dive di sesso femminile. Anche se tecnicamente Ocean’s 8 non è un reboot, ma uno spin-off, siamo comunque davanti a un caso che strizza l’occhio al fenomeno del gender swap, dimostrando in questo caso che l’atteggiamento cool & glamour lanciato dal franchise inaugurato nel 2001 fa la sua bella figura anche su dei personaggi femminili.
Ora, per quanto questi film siano entrati in pre-produzione diverso tempo prima dell’esplosione dello scandalo Weinstein e dell’inaugurazione del femminismo patinato alla #meetoo (sia chiaro: sempre meglio patinato che niente), il rilancio della pratica sembra partecipare al clima generale e assume dunque una connotazione che va al di là del film in sé e parla i toni politicamente corretti di una nuova narrazione ufficiale in cui le donne sono finalmente al centro dell’industria cinematografica.
Tornando ai progetti di gender swap annunciati, fonti ufficiali parlano di una massiccia operazione di ripescaggio di classici tipo Dirty Rotten Scoundrels (in Italia: Due figli di…) con Steve Martin e Michael Caine nei panni di due truffatori che entrano in competizione su una ricca preda da spennare, o il reboot al femminile de Le avventure di Rocketeer, tratto a sua volta dal fumetto di Dave Stevens.
Fox ha annunciato, inoltre, una serie che prenderà spunto da The Nice Guys con Ryan Gosling e Russell Crowe che vivranno l’ebbrezza, anche loro, di un cambio di genere, mentre Greg Berlanti (produttore e sceneggiatore di Arrow, The Flash e Supergirl) ha in cantiere una serie in cui una protagonista femminile riproporrà il concept alla base dello show anni ’70 di David Carradine, Kung Fu, con una monaca buddista che viaggia nell’America del 1950 alla ricerca del figlio rapito.
Ora, per quanto apprezzabile sia il desiderio di Hollywood di dotare di nuove forti personalità femminili il pantheon dei personaggi del cinema mainstream, è importante che il risultato sia all’altezza delle intenzioni e delle aspettative del pubblico. In caso contrario, si tratta solo di un’operazione di facciata, un contentino da dare all’altra metà del cielo o un trucco di coscienza, per dire e dirsi che l’industria della Settima Arte è paritaria e gender friendly. Quando i risultati sono insufficienti e vanno a toccare film ai quali il pubblico (maschile e femminile) è particolarmente legato – vedi Ghostbusters – si otterrà solo un inasprimento delle opinioni, uno sgradevole confronto tra originale e reboot e tra interpreti e performance. Più utile, in un’ottica paritaria, sarebbe una produzione di opere originali in cui nuovi personaggi femminili abbiano lo spazio di esprimersi senza andare a scomodare modelli resi irraggiungibili da regia e sceneggiatura sciatte e banali.
Un discorso simile si potrebbe fare sul reboot di Karate Kid, altro cult che – al pari di Ghostbuster – ha stuoli di fan in tutto il mondo. Con Karate Kid – La leggenda continua del 2010 e la scelta del suo protagonista in Jaden Smith, figlio di Will. Eravamo durante il secondo anno del primo mandato Obama, in un clima – giustissimo – di critica all’egemonia wasp che ha da sempre governato Hollywood, dando più spazio ad attori, registi e sceneggiatori afroamericani. L’esito di quella tendenza ha avuto nel reboot di Karate Kid un risultato piuttosto mediocre e – ça va sans dire – non all’altezza dell’originale, onde dimostrare che il politicamente corretto è senz’altro efficace in una campagna elettorale, ma non sempre dà vita a bei film.
Ci sono altri casi in cui il remake va a prendere film di successo, ma fuori dai circuiti hollywoodiani e li adatta a cast e regie americani. Un film che rientra in questa tipologia è Old Boy di Spike Lee del 2013, remake del revenge movie di Park Chan-wook del 2003. L’originale coreano, ispirato dall’omonimo manga, ebbe grande successo a Cannes andando a colpire l’attenzione di una fascia di pubblico sensibile alla poetica del regista già conosciuto con il più criptico Mr. Vendetta del 2002.
Inserita all’interno della cosiddetta Triologia della vendetta di Park Chan-wook, la storia di Dae-su è presa da Spike Lee e riproposta in maniera abbastanza fedele, sostituendo il volto di Choi Min-sik con quello di Josh Brolin. Per quanto non si possa mettere in discussione la qualità della regia di Lee (e ci mancherebbe altro), si può riflettere sulla necessità di rifare un film in cui Hollywood ha visto un grande potenziale, piuttosto che pensare a una distribuzione dell’originale. Il white washing di cui le major statunitensi sono state più volte accusate è un pericoloso atteggiamento che appiattisce differenze e sfumature della cinematografia internazionale. Portare il pubblico verso il gusto del film straniero, senza doverlo per forza ri-masticarlo in salsa occidentale, assolverebbe a una delle funzioni primarie dell’arte, quella dell’educazione dell’uomo e dello sviluppo della sua percezione della bellezza.
Quando abbiamo a che fare con reboot o remake di cult molto molto vecchi, allora possiamo scorgere un senso in questa tendenza alla ripetizione. Prendiamo, ad esempio, Kong Skull Island del 2017 o Godzilla del 2014. Andare a rimettere mano su archetipi diventati i simboli stessi di un intero filone cinematografico è un’operazione non solo coraggiosa, ma anche artisticamente interessante. Certo, abbiamo sempre chiaro che si tratta di kolossal mainstream il cui fine – al pari degli altri – è l’incasso, ma in questi casi il pubblico ha dei reali motivi per andare in sala, come – ad esempio – constatare come gli attuali mezzi tecnologici siano in grado di amplificare l’esperienza dei monster movie. Quello che negli anni ’20 era spaventoso per lo spettatore, ora è decisamente superato e risulta – a tratti – anche un po’ ridicolo, motivo per cui ha senso aggiornare secondo il gusto e la percezione contemporanea dei concept dal potenziale praticamente immortale.
In sostanza, l’abuso della tendenza porta sempre a una produzione massiva e a un abbassamento generale della qualità media dei prodotti; questo è senz’altro vero nel caso del reboot che – non dubitiamo – porterà o avrà portato anche a felici eccezioni di questo insufficiente quadro generale.
In linea di massima, si avverte il pericolo in cui versa la creatività e il coraggio nel lanciarsi in proposte completamente nuove, davanti a un pubblico sempre più abituato alla ri-scrittura del vecchio e alla trasposizione in grande del concetto di serie TV, un racconto virtualmente infinito (o comunque molto più lungo di quello tradizionalmente associato al film unico) che si costruisce capitolo dopo capitolo. Per quanto sia chiaro che il cinema mainstream (e non solo) sia prima di tutto una grande industria, non possiamo che preoccuparci del valore artistico dei suoi prodotti e guardare con sospetto all’ennesimo franchise.