Dietro le quinte del Doping
Netflix, la piattaforma conosciuta ai più come foriera di stagioni e stagioni di avvincenti serie TV, sta spingendo l’acceleratore, negli ultimi mesi, anche sui contenuti maggiormente impegnati come i documentari.
È questo il caso di Into the Inferno, presentato lo scorso ottobre al Festival del cinema di Roma o di Icarus, proiettato in anteprima al Milano International Film Festival proprio in questi giorni.
Il docu-film nasce da un’esperienza vissuta in prima persona dal regista, Bryan Fogel, semisconosciuto cineasta statunitense alla sua seconda prova dietro la macchina da presa.
Appassionato di ciclismo fin dal giovanissimo, quando vide Greg Lemond, il primo corridore americano a vincere il Tour de France, il regista ha inforcato la bici gareggiando a livello amatoriale dagli anni ’80 ad oggi. Pochi piazzamenti, tanta fatica ma la soddisfazione di essere sulla scia di grandi campioni che facevano affidamento, come lui, solo sulla tenacia e la forza delle gambe, del cuore e dei polmoni.
Immaginate quindi la delusione quando scoppiò lo scandalo legato a Lance Armstrong: il grande campione pluripremiato al Tour de France ammise, qualche anno fa, di aver fatto regolarmente uso di doping lungo tutta la sua carriera. Per Bryan Fogel fin qui lo shock fu duro ma anche gestibile: in fondo, le storie di doping non sono una novità quando si segue lo sport a tutti i livelli. Diverso fu l’impatto che ebbe la seconda domanda che il regista si fece: com’è possibile che Lance Armstrong sia riuscito a passare indenne attraverso centinaia di controlli antidoping, fatti apposta per scoprire questo genere di alterazioni?
Quella che per alcuni sarebbe diventata una semplice chiacchiera da bar, è stata per Fogel la spinta verso una ricerca approfondita, una sperimentazione dei propri limiti e un documentario lucido e affilato come un’ago.
Procediamo un passo alla volta.
La prima parte del film, dopo l’introduzione che vi abbiamo appena raccontato, assomiglia molto al genere Super size me: per quanto straniante vi possa sembrare, Fogel decide di sottoporsi, sotto un rigido controllo medico, a un rigoroso programma di doping. Non dei semplici beveroni ma steroidi iniettati due volte al giorno, pillole prese ogni mattina e monitoraggio costante dei fluidi corporei. Tutto questo per dimostrare il progressivo miglioramento delle proprie prestazioni fisiche (e quindi interrogarsi sul perché un atleta talentuoso e dotato come Armstrong debba farne uso), ma soprattutto per capire come sia possibile eludere i controlli antidoping che vengono praticati prima e dopo le gare.
Il consulente medico in questione, ossia colui che aiuterà Fogel a doparsi e a farla franca, sarà Grigory Rodchenko, direttore del centro antidoping di Mosca. Non l’ultimo arrivato, insomma.
Il tono iniziale del film è divertente e scanzonato: i due, l’altleta/regista e il medico/consulente fanno delle simpatiche chiacchierate su Skype, si raccontano aneddoti sulle reciproche vite e progettano al meglio la tabella di marcia delle droghe che dovranno essere assunte da Fogel per doparsi a puntino.
Rodchenko, una volta entrato in confidenza col regista del film, comincia ad aprirsi e narra – sempre ridendo e quasi pavoneggiandosi – di come il doping in alcune discipline sia la norma, in Russia come in altre nazioni.
Dalla metà in poi, quindi, il film cambia tono.
Non più risate (o almeno non così tante) ma domande serie: com’è possibile che il Direttore del centro antidoping di Mosca parli così liberamente di sistemi dopanti ai massimi livelli delle competizioni mondiali? Com’è possibile sfuggire ai rigidi controlli che il Comitato Olimpico mette in atto sia durante le Olimpiadi che prima e dopo le competizioni?
Passiamo quindi da Super size me a Snowden nel giro di mezz’ora. Il cambio di registro del film non è sgradevole, anzi: rimanendo in tema sportivo è come se dopo una gara piacevole e intensa, ci fossimo avvicinati alla volata finale. Rodchenko parla e racconta di come sia facile truccare un’Olimpiade, quando a volerlo sono i massimi vertici politici di una nazione, quando ogni atleta deve dare il meglio per dimostrare la potenza di un paese, quando perfino l’intelligence (in questo caso il buon, vecchio, KGB) si prodiga per avere più medaglie di tutti. Lo scandalo scoppia su tutte le testate giornalistiche, di settore e non, in giro per il mondo: non c’è giornale che non ne parli, non c’è appassionato di sport che non si scandalizzi. Il resto è storia nota ma narrata con la sapienza di chi, dietro la macchina da presa, è capace di infondere la sua passione per lo sport, prima, e il suo shock per le rivelazioni ricevute, poi.
Usciti dal cinema eravamo più consapevoli di prima delle insidie che la dispendiosa macchina sportiva si porta dietro, più disincantati sulle effettive possibilità di controllo che vengono messe in atto ma soprattutto più informati – e appassionati – sul tema. Possiamo quindi dire che il documentario ha raggiunto il suo obiettivo.
Verdetto:
Icarus è il secondo documentario che Netflix presenta in anteprima al cinema prima di lanciarlo sulla propria piattaforma di streaming. Bryan Fogel, regista e ciclista amatoriale, ci guida con professionalità e attenzione nei meandri del doping sportivo: partendo da un’inchiesta sulle possibilità di eludere i controlli antidoping, Fogel contatta un esperto del settore, Grigory Rodchenko. Le rivelazioni che riceverà dal direttore del centro antidoping di Mosca spalancheranno le porte al più grande scandalo sportivo che la storia delle Olimpiadi ricordi.