Il buco, la grottesca distopia firmata da Gaztelu-Urrutia sbarca su Netflix: una sorprendente e allegorica opera prima
Apri gli occhi. Non ricordi nulla e non sai dove sei. Ti guardi intorno. Il tetro grigio cupo del cemento ti fa smarrire. Non c’è riparo, non c’è umanità. Sei rinchiuso, senza via d’uscita. Ti accorgi che sei in una prigione, ma nulla appare normale. Sempre che ci sia normalità nella reclusione. Ma tutto quello che vedi va oltre ogni cupa immaginazione, è come vivere in un incubo. Un sogno terrificante, senza apparente risveglio e via di fuga. Non c’è alcun riferimento temporale, soltanto un numero, che identifica la tua possibilità di sopravvivere.
Se tutto questo vi sembra claustrofobico, angosciante e mostruoso, questo è solo l’inizio. Perché se accendete Netflix e guardate Il Buco, sappiate che precipiterete negli abissi più infimi della razza umana.
Se nel 1997 la claustrofobica estetica di Cube, pellicola di Vincenzo Natali, vi ha proiettato in un labirinto mentale senza soluzione e se l’orizzontale e brutale raffigurazione umana di Snowpiercer vi ha aperto gli occhi, portandovi ad una visione disincantata e cinica della contemporaneità state alla larga da Il Buco, preferendo orizzonti più limpidi su Netflix.
Se i vostri occhi e la vostra mente sono pronti per una visione distopica, allegorica e maledettamente cupa, sarete i benvenuti nella Fossa.
Prigionia verticale
Diretto da Galder Gaztelu-Urrutia e scritto da David Desola e Pedro Rivero, Il Buco è una di quelle esclusive Netflix che meritano una visione. Travolti da un’offerta cinematografica sempre più corposa, è difficile muoversi nei cunicoli dell’intrattenimento 2.0, con il rischio di finire in vicoli ciechi.
Ci si ritrova costantemente a scegliere tra la visione di un film già visto e le trappole di produzioni in serie, che sfruttano ciclicamente echi del cinema del passato. Trovare nuove idee e lasciarsi trasportare dalla fantasia di autori capaci di osare, non è compito facile. In un anno in cui Bong Joon-ho con il suo Parasite ha sconvolto e travolto gli schemi ordinari hollywoodiani, anche nel piccolo schermo si scovano piccole gemme, da scoprire e ammirare. Il Buco, opera prima che ha riscosso ottime critiche al recente Festival di Torino, è tra quelle.
La pellicola ci porta in una realtà senza luogo e senza tempo. Una prigione atipica in cui si risveglia il protagonista, Goreng (Ivan Massagué). Un penitenziario che si estende in linea verticale e comprende un numero imprecisato di piani, abitati ciascuno da due persone. Goreng scopre di dover convivere con un buffo e inquietante personaggio di nome Trimagasi (Zorion Eguileur) al quarantottesimo piano, “un buon livello perché intermedio”. La struttura presenta al centro un’apertura, in cui ogni giorno scende una piattaforma piena di cibo e bevande. Si hanno due minuti per prendere tutto quello che si vuole. Poi quella tavola imbandita scende e il cibo, a causa della voracità e dell’egoismo dei carcerati, inizia a essere sempre più vuota. E i prigionieri degli ultimi piani diventano vittime degli eccessi e della voracità degli abitanti dei piani alti.
Lo spettatore si ritrova sul proprio piatto una perfetta metafora della società.Il Buco: il trionfo della metafora e della distopia su Netflix
La gerarchia e la struttura sociale figlia del capitalismo sono alla base della drammatica convivenza dei prigionieri della fossa. Se gli abitanti dei vari piani si limitassero a mangiare ciò di cui necessitano realmente, ci sarebbe cibo per chiunque. Anche per gli sfortunati abitanti dei piani più bassi. L’avidità ribalta e mortifera l’altruismo, unica via per una pacifica e naturale vita.
La fossa diventa quindi metafora delle differenze di classe. Se in Snowpiercer i diversi status quo della società erano distribuiti orizzontalmente, qui si assiste ad una visione più classica e verticale. La prigione riflette una concezione capitalistica in cui l’equa ridistribuzione delle ricchezze viene beffardamente osteggiata e derisa dalle classi più agiate, qui raffigurate dagli abitanti dei primi piani, a cui il gargantuesco banchetto sembra una proprietà privata, da non condividere con gli abitanti dei bassifondi.
Nei livelli più bassi della società di conseguenza non si vive, ma si sopravvive. Consci della miopia e della continua brama di ricchezze/cibo dell’upper class. Il cibo diventa il denaro e il numero del piano identifica il proprio ceto.
Le generosità è pura utopia e il potere si ottiene a discapito dei più sfortunati. Chi vuole scalare la società e la fossa deve farlo cercando un’umanità assente. La fame fa rima con violenza e il potere con sopruso. Il ribaltamento del sistema non può appoggiarsi sulla forza del singolo, ma di una presa di coscienza, che sembra però impossibile da far riaffiorare in un contesto che annichilisce il sacrificio.
La solidarietà nel film impatta continuamente con l’istinto più bieco e violento dell’uomo e l’eterno ottimismo del protagonista viene costantemente riformulato e ribaltato dall’incontenibile e animalesca violenza degli altri abitanti della fossa.
Come nel Condominio di James Graham Ballard l’esasperazione dell’individuo porta alla perdita del raziocinio e l’intelligenza umana regredisce, tornando ad uno stadio animalesco e irrazionale. La violenza diventa normalità e l’impulso deviante si manifesta liberamente, come istinto naturale di sopravvivenza.
Ad una spiccata e funzionale narrazione metaforica, si abbina una sceneggiatura che mantiene sempre alto il livello di tensione. La pellicola ammicca continuamente al genere horror, da cui mutua un’inarrestabile ed efferata escalation di violenza. Il desiderio del protagonista e dello spettatore di un cambiamento e di una svolta accompagnano la visione. L’estetica cupa ed asciutta non crea punti di appiglio, ci si ritrova imprigionati nel tetro materialismo visivo.
Accendete Netflix, scegliete Il Buco e sperate di risvegliarvi nei piani alti. Altrimenti, buona sopravvivenza.