Considerazioni sciolte sul nuovo gioco di Zelda
Permettetemi una premessa quasi doverosa: quelli che seguono sono una serie di pensieri sparsi, di considerazioni nate dopo sessioni di gioco nel mondo Hyrule di diverse decine di ore, ma con la conclusione della mia avventura ancora lontanissima. Questo per dire chiaramente che NON è una recensione, perché per avere il parere di Stay Nerd dovete leggere il testo del Boss, lo dovete studiare.
Qui invece siamo riuniti per una chiacchierata tra amici, tra fan di Zelda, tra detrattori, tra quelli che non vogliono schierarsi, perché a dispetto di ogni posizione, è oggettivo che questo nuovo titolo Nintendo ha creato uno strascico di pareri che spaziano in ogni direzione. E questi risultati riescono a ottenerli solo i grandi. Punto.
Il mio punto di vista è che Zelda abbia riscritto gran parte dei paradigmi del gioco di ruolo a cui siamo abituati. In particolar modo, parleremo di combattimenti, level up e del vero cardine di tutto il discorso, l’esplorazione. Non staremo qui a farci le pippe sulle meccaniche alla base di questi cardini del videogame, per quello ci sono altri luoghi più appropriati per parlarne, ma invece ci arrovelleremo intorno al loro valore semantico, al loro significato complessivo nell’economia del gioco stesso.
Vi prego di seguirmi, anche se già vi vedo con lo sguardo un po’ corrucciato: tranquilli, non c’è niente di male a sprecare neuroni per queste cose, anche perché trovare significati dove magari neanche ce ne sono ci differenzia dagli animali, in parte.
Il filo della spada
La nostra esperienza decennale di giochi di ruolo ci ha insegnato che ogni volta che combattiamo, facciamo fuori qualcuno (in senso videoludico…) il nostro personaggio guadagna in bravura digitale. Che siano punti esperienza, anime o altra valuta impalpabile, sappiamo che un combattimento vinto ci mette nelle condizioni di poter guadagnare qualcosa in termini di crescita e potenza. In pratica, ogni combattimento tempra l’Eroe e lo porta verso nuovi livelli, che siano di di consapevolezza, di forza o di passione. Resta imprescindibile il fatto che ogni forma di training combattivo ci dà un reward che potremmo spendere per diventare più forti.
Gli esempi in questo senso sono decine e decine: il recente Horizon, il più vecchio The Witcher, tutti i Final Fantasy basavano la crescita dei personaggi proprio su questo cardine. Se uno non combatteva, non riusciva a diventare più forte.
Zelda invece fa del combattimento un aspetto quasi triviale del gioco. Si combatte, si incontrano accampamenti di Grublin, orchetti, schifezze lizardiformi sparse per il mondo di gioco, ci si prende a spadate, a colpi di lancia e a schiaffi in faccia (sì, è così, anche se la mano è quella scheletrica di un mostro appena ucciso…). Addirittura si può far fuori un nemico alle spalle con un uccisione stealth, si possono cecchinare con l’arco le vedette, si possono fare assalti dall’alto con la paravela e tendere imboscate con le bombe. Con tutte le opzioni offerte dai gadget e dalla fisica interna del gioco, poi, si può sfruttare anche l’ambiente per sterminare i bastardi che insozzano la piana di Hyrule.
E tutto questo è anche divertente. Allora perché è triviale?
Perché il combattimento non serve a niente per crescere di livello. Il gioco non premia chi è forte con la spada. Ripetiamo insieme: Zelda è un GIOCO DI RUOLO che non premia chi è forte con la spada (o con qualsiasi altra arma).
Sembra un’assurdità, ma è meraviglioso, e vedremo presto perché.
Il combattimento però ha un suo valore e anche piuttosto incidente nel resto del gioco. Seccare i nemici è obbligatorio perché sono la nostra fonte primaria di gear e equipaggiamento, di materiale per le pozioni e soprattutto è fonte di una certa soddisfazione (almeno per me…).
In definitiva il combattimento rende ricchi. Non è un veicolo per la crescita, perché il gioco porta con sé il concetto che uccidere altri, anche se necessario in quanto nemici, non ci rende migliori. È qualcosa di semanticamente gigantesco, un’ammissione di pacifismo antiviolenza insita nello stesso atto di combattere.
Nell’economia del gioco, l’uso delle armi non perde di valore, ma ne assume uno nuovo, spingendo il giocatore a cercare i combattimenti per sostituire le armi rovinate, per cercare nuovi materiali, ma non per diventare più forte.
Si potrebbe dire che anche gli altri giochi hanno lo stesso sistema, ma in più fanno guadagnare punti esperienza e per questo Zelda è addirittura monco. È una considerazione legittima, ma mi trova in disaccordo. Penso che questa esclusione del combattimento dalla crescita del personaggio sia fondamentale soprattutto per bilanciare l’altro vero punto forte del gioco, quello a cui arriveremo in un momento, e cioè l’esplorazione.
Se fosse davvero così facile salire di livello, combattendo nemici e devastando accampamenti, allora il gioco perderebbe una parte del suo appeal, e il giocatore si troverebbe di fronte a una soluzione veloce per poter far fronte alle sfide che lo attendono. Invece, separare in maniera così netta le azioni per poter diventare più potenti fa parte di un concetto di gioco che spinge verso l’esplorazione e la ricerca.
Vediamo insieme.
L’Esplorazione
È noto come da sempre chi si approccia a creare giochi di ruolo spenda gran parte del proprio tempo a pensare a un sistema di avanzamento del personaggio che sia contestualmente profondo e versatile e soprattutto che spinga il giocatore a voler sempre di più per il suo alter ego. Abbiamo avuto per le mani mille diverse iterazioni, con parametri, skill tree più o meno complessi e ramificati, caratteristiche nascoste e chi più ne ha più ne metta.
Invece Zelda spazza via tutta questa complessità e ci dà solo due componenti migliorabili: stamina e cuoricini (per stare in tema con la serie). A questo aggiunge però altre caratteristiche fuori busta che possono essere migliorabili e upgradabili, aggiungendo ulteriore profondità alla build del personaggio. Ma paradossalmente non siamo affatto vicini a quello che altri giochi hanno da offrire, anche se nonostante tutto, il modo in cui tutto è perfettamente incastrato rende Zelda uno dei giochi più profondi che abbia avuto per le mani.
La domanda da fare in questo caso: cosa vuole da noi Zelda affinché diventiamo sempre più forti, per essere all’altezza dell’intero gioco? Abbiamo dimostrato che il combattimento non ha quasi alcun effetto sulle nostre abilità. Abbiamo visto che i parametri da modificare sono solo due.
La soluzione offerta da Miyamoto e company è quanto di più interessante si sia visto finora: vuoi essere il più forte di tutti? Bene, allora, alza il culo e vai in giro per il mondo.
L’esplorazione è il cardine ultimo dell’intero gioco, tutto ruota intorno a questo concetto. Rimanere nella stessa area a casaccio non solo non farà progredire la storia (ovviamente), ma ci lascerà cristallizzati nello stesso personaggio che eravamo quando vi avevamo messo piede. Come un perfetto insegnamento New Age, alla base di tutto il divertimento di Zelda c’è il desiderio stremante di mettersi in marcia, che sia a piedi o a cavallo. Il fatto che la mappa sia semplicemente enorme, non è solo per rientrare in qualche statistica, ma rispecchia perfettamente le potenzialità di level up del giocatore.
Percorrere km e km (e sono davvero chilometri, quelli che macinerete sotto gli stivaletti da elfo) ci porterà a scoprire luoghi dimenticati, a guardare l’infinito negli occhi più e più volte per poter solo vedere che c’è altro al di là della montagna. È questa la vera magia di Breath of The Wild: non tradisce mai il sense of wonder della prima scoperta, perché sappiamo benissimo che la via verso la potenza assoluta sta proprio tra i picchi e le colline, oltre le pianure e a monte dei fiumi. L’esplorazione diventa quasi imperativa, un bisogno imprescindibile perché è l’unica cosa che ci permette di scoprire i Sacrari, i mini dungeon che ci fanno guadagnare emblemi, la valuta leggendaria utile per aumentare i nostri due parametri.
L’incastro perfetto dell’intero gameplay sta proprio nella distinzione tra il valore (basso, triviale) impostato per il combattimento e l’importanza (alta, quasi vitale) spalmata sull’esperienza esplorativa.
Nessun gioco finora aveva tracciato così nettamente il confine tra queste due parti integranti del gameplay, facendone il suo marchio di fabbrica. In poche parole chiunque si mette a giocare a Zelda sa che dovrà viaggiare in lungo e in largo perché è quello che gli impone il gioco stesso di fare, senza se e senza ma.
L’avventura
Un’altra considerazione che mi sento di fare dopo diverse ore irretito nelle maglie della nuova avventura di Lnk riguarda uno degli elementi cruciali dei giochi basati sull’esplorazione: la mappa.
Non mi soffermerò sulla sua grandezza e sulla sua varietà, perché si questo se n’è già parlato e siamo lì tutti con gli occhi sgranati a pensare a quello che sono riusciti a realizzare a Kyoto. Un aspetto che invece mi sembra sia quasi passato in secondo piano è come la mappa sia stata gestita e concettualizzata da Eiji Aonuma. Aprendo la schermata relativa quel che balza agli occhi è la totale assenza di segnalini o icone, a parte quelle che mettiamo noi direttamente come promemoria e quelle relative alla quest in corso (e di solito anche queste sono solo dei meri suggerimenti che non danno nessuna informazione).
In pratica viene scardinato il vecchio approccio che molti giochi hanno fatto della mappa, che potremmo considerare quest-o-centrico. Fateci caso: ogni volta che vi ritrovate a passeggiare in giro per un qualsiasi open world, cominceranno a spuntare mille e mille icone sulla vostra mappa, che come piccole insegne luminose vi attireranno nella loro direzione.
C’è una quest di Caccia. Devo andarci subito!
Oh, guarda, una carovana da scortare. Non posso lasciarmela scappare!
E via dicendo…
Tutto questo in Zelda non esiste: la mappa non vi dà indicazioni, se non i nomi dei luoghi, a vari livelli di dettaglio, e non vi distrae dal vostro compito principale: andare in giro. Le quest le dovete sbloccare da voi e se non siete abbastanza curiosi, allora gran parte di quello che il gioco ha da offrirvi passerà via quasi inosservato. L’avventura è ricca di particolari, ma non sono visibili a una prima fugace occhiata, hanno bisogno di essere scovati ed è questa la vera ricompensa a cui Link (e il giocatore) anela.
Le subquest, i collectibles, le minisfide e i minigames sono tantissimi, e sono tutti lì a portata di mano, solo che a differenza di tanti altri giochi non sono marcati da nessuna parte. L’unica cosa saggia da fare per riuscire a immergersi in questa ricerca è quella di farla, senza scorciatoie e senza facilitazioni, con la sola forza della pazienza e dei propri piedi (virtuali…).
L’allegoria
Se mi permettete un’altra considerazione, forse un filo più pindarica di quelle fatte finora, il termine esplorazione e il concetto di viaggio assumono un aspetto doppiamente importante all’interno di Breath of the Wild: oltre all’aspetto più terreno della strada e la polvere, il viaggio è anche una metafora, un’allegoria incarnata nella ricerca da parte di Link di se stesso, della sua memoria e della principessa. E anche questo aspetto del gioco è affidato al muoversi, alla ricerca di luoghi e particolari per risvegliare in modalità madeleine la memoria sopita del protagonista.
L’assoluta libertà di scelta, poi, trasforma il viaggio in un’esperienza unica per davvero, che cambia da persona a persona, perché è chi si mette per strada che decide dove andare. Le tracce lasciate qua e là dalla trama principale sono solo dei suggerimenti e servono a dettare una sorta di rotta principale, ma in realtà l’unico vero segreto per divertirsi è seguire la propria bussola… e accettarne le conseguenze.
Quindi, il cuore pulsante di Zelda è proprio questo aspetto dalle plurime interpretazioni, il viaggio, la ricerca, la corsa verso l’ignoto: questi ingredienti sono da sempre presenti in tutti i giochi, soprattutto quelli di ruolo, ma quello che accade in questo capitolo della saga è che assumono un valore nuovo, trovando le nuove dimensioni a cui appartengono. Non voglio convincervi che questa sia una cosa buona o giusta, il mio bisogno qui è quello che esternare queste mie considerazioni, frutto di diverse ore di gioco, fatte a occhi sgranati, scalando pendii scoscesi e calandomi tra dirupi senza sapere cosa mi aspettava di sotto, sempre felice di qualsiasi scelta avessi fatto, che mi portasse verso una morte certa e dolorosa o verso una nuova scoperta.
Potrei spendere ancora migliaia e migliaia di parole su quanto questo gioco sia filosoficamente diverso dagli altri che ho avuto per le mani, tanto da stregarmi fino alla cima dei capelli, mi piacerebbe continuare a dirvi che tutto sembra parte di un progetto che getta le basi su idee assolutamente non banali, che danno una nuova definizione di gioco di ruolo, ben lontana dalla classica. Potrei anche aggiungere che tutto l’impianto di gioco rimescola le carte in tavola, carte che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi, ma le riasetta in un qualcosa di nuovo, perché in questo caso, cambiando l’ordine degli addendi, il risultato cambia. Cambia di brutto.
Ma non lo farò. Mi fermo qui, perché anche se è bello stare qui a parlare con voi, dovete scusarmi: ho un me stesso da trovare e un regno da salvare.
Ci vediamo dall’altra parte!