Partendo da usi e costumi e aprendo con le parole dell’antropologo Ernesto De Martino, “Il legame”(Netflix) cerca il connubio tra radici storiche-culturali e genere horror
Nell’entroterra del Sud Italia retaggi ancora non sdoganati attribuiscono al malocchio e alle tradizioni le più intrinseche fantasie. Sono veri e propri culti quelli che il meridione prende a credo di una dimensione possibilista e ricca d’immaginario, per sentimenti di chiusura e segretezza di riti affidati alle diverse fasi della vita, alle differenti classi sociali e familiari, fino alla specifica attenzione per il genere e le conseguenze di sortilegi e le loro varie declinazioni.
Misteri sotto gli occhi di tutti, ancora radicati in paesi e in usanze che sono progredite con l’avanzamento dei tempi, ma che non hanno potuto e saputo rinunciare alla protezione dei propri spiriti e delle loro suggestioni, branchia estesa di una religiosità che non riguarda più solamente il corpo e il sangue di Cristo, ma un intero spettro di costumanza che si lascia ancora avvolgere dall’arcano.
Aspetti che un antropologo come Ernesto De Martino ha studiato e riportato con analisi attente e assennate per un’osservanza minuziosa e rispettosa degli usi che il sud ancora applica ai propri cittadini, storie che sembrano appartenere ad altri mondi e si rapportano, invece, proprio al nostro, seppur occultate da una sacralità quasi spettarle, che dalla trance alle danze sfrenate ripercorrono i passi e i gesti di una ritualistica della possessione.
È proprio citando il filosofo italiano che Il legame di Netflix apre la propria storia, trasportando la tradizione nella spirale dell’horror, facendo di quell’intrigo la base su cui sviluppare una narrazione cinematografica che prendesse dall’inquietudine delle pratiche reali per trasformarle negli incubi del regista e sceneggiatore Domenico Emanuele de Feudis.
Dalla tradizione del Sud al panorama Netflix con Il legame
Una scrittura ampliata dalla collaborazione con i co-sceneggiatori Davide Orsini e Daniele Cosci, ma che nonostante il contributo di più mani non è riuscita a sfruttare adeguatamente il materiale interessantissimo e ferventemente fertile della fascinazione. Fascinazione che è punto di contatto tra la parte culturale dell’opera di de Feudis e la costruzione della sua parabola dell’orrore, una discesa nelle segrete di una tradizione da cui si è cercato di prosciugare il suo lato più atroce.
La spaventevole risonanza cerimoniale delle prassi del caldo sud ha il giusto appiglio per la trasposizione di un racconto che sa da quale bacino trarre, ma che dalla base sembra non saper poi edificare bene uno sviluppo convincente, che possa fare il salto dal seguito attento delle consuetudini a un’opera che integri in maniera conforme la propria volontà horror.
Un dispiacere che ammonta e cresce durante la visione del film, che dall’atmosfera d’apertura fa presagire un potenziale che rimane sostanzialmente inespresso nell’espandersi e dipanarsi della pellicola, che nell’incrociarsi di eredità spirituali e fantasticherie terrorizzanti avrebbe anche trovato un buon connubio, se si fosse stati però capaci di non sfilacciarlo nel corso della sua espansione alla paura pura.
È, di fatto, il magnetismo ciò su cui più di altro Il legame avrebbe potuto puntare, incentivando un dialogo con quello che di vero resta del patrimonio culturale e ritualistico di quella terra, esplorato eppure non indagato approfonditamente per contestualizzare ancor meglio la portata significativa dei gesti e delle trasformazioni dei personaggi, aspettando invece che lo spettatore accetti mestamente le condizioni di fronte a cui la pellicola lo pone dinnanzi.
Il “legame” mancante tra usanze e intrigo horror
È dell’analisi di quei costumi così invasivi e, di per sé, impressionanti che si sarebbe potuto avvalere il film di Domenico Emanuele de Feudis, di un autentico viaggio negli inferi di una serie di radicali convinzioni che possono racchiudere al loro interno tutta l’ammirazione reverenziale e l’irrequietezza del pensiero che si rifugia dietro le abitudini popolari.
Il tarantismo, dunque, viene in qualche modo privato del misticismo che lo pervade, ridotto così a solo espediente per un film più o meno consono ai dettami del cinema dell’esecrabile, ma sciolto da qualsiasi “legame” con ciò che più intrinsecamente va, in verità, a rappresentare, e che avrebbe potuto avere la stessa presa, se non ancora maggiore, sul pubblico osservante.
Un prodotto che, pur sfruttando solo superficialmente un bacino talmente pregno di seduzione per l’universo dell’horror, sa comunque scegliere un compartimento tecnico che aiuta Il legame a non scadere enormemente nell’insufficienza delle proprie prestazioni, con un lodevole lavoro di trucco e di tutto il reparto della metamorfosi dei personaggi, dal morso della tarantola alle fatture costrette a una sfortunata fine.
Una conoscenza dei tempi e dei ritmi del genere che fa presagire una prospettiva più stimolante per il futuro dell’esordiente de Feudis, per un’opera che potrebbe aver posto le proprie radici nel panorama italiano, ma il cui sortilegio auspicato non è stato ancora pienamente compiuto.