Dal romanzo di Jack London, Il richiamo della foresta riporta la ricerca di sé, ma non il senso di avventura
Non si può sfuggire al proprio istinto. Jack London lo sapeva bene, costruitosi una carriera letteraria sull’importanza delle proprie radici e il bisogno, primitivo e vorace, di spogliarsi di tutte le inutili sovrastrutture. Lo ha fatto con l’uomo, lo ha fatto con la specie animale.
E lo ha fatto con la storia del cane Buck ne Il richiamo della foresta, costretto alla vita assoggettata dei padroni che ne hanno reclamato l’obbedienza, e che si sono susseguiti in quell’esistenza proiettata verso il proprio selvaggio destino.
Perché è realmente un richiamo quello verso cui viene spinto il protagonista canino. Come guidato da uno spirito guida, che prenderà forma nel corso degli eventi dell’animale e rispecchierà la maestosità selvatica e evocativa del lupo.
Un filo segnato, un percorso già scritto, dove a non tutti è concesso mettersi in contatto con il proprio impulso vitale, ma che per Buck ne risulterà il decisivo punto di non ritorno, l’approdo che ha sempre sentito dentro e che, concretamente, potrà renderlo indipendente da quelle costrizioni che per troppo tempo lo hanno stretto al guinzaglio.
Il richiamo della foresta: stesso romanzo, quinta riproposta visiva
Parte, infatti, da una famiglia d’alto rango il viaggio del cane protagonista, incrocio tra un sanbernardo e un pastore tedesco che, di quelle dimensioni enormi e quella figura così ingombrante, ne fanno un marchio distintivo. Marchio distintivo, ma anche impedimento per il buon costume di quella famiglia borghese, da cui verrà presto strappato ritrovandosi, però, in un ambiente a lui più congeniale.
Sono le innevate distese dell’Alaska quelle su cui affonderà le proprie zampe il protagonista, diventando cane da slitta fino a rincorrere il proprio fato, dove potrà finalmente ricongiungersi con la natura.
È il quinto riadattamento quello che Il richiamo della foresta, dall’omonimo romanzo, vede attuato sotto la ribattezzata 20th Century Studios, quinta esperienza per il canino Buck che dal racconto breve espande la propria narrazione al grande schermo, mantenendo però intatto il principio primo per cui è necessario allontanarsi dal proprio punto di inizio per poter giungere al proprio luogo di appartenenza.
La storia del viaggio, una metafora dell’esistenza che si riscopre viva soltanto sfuggendo dal conforto a cui si era abituati. Perché non si può scappare per tutta la vita da chi siamo, ma si vorrebbe poter scampare almeno dall’ennesimo remake vacuo che gli studios ci propongono.
La natura contaminata dal digitale
Il richiamo della foresta di Chris Sanders, la cui carriera partiva dalla fantasia familiare di Lilo & Stitch (2002), passando per l’ebbrezza del volo di Dragon Trainer (2010) e esplorando già la peregrinazione con il lungometraggio di finzione I Croods (2013), lascia indietro la sfera del cartone animato a cui il regista era solito approcciarsi, in una compenetrazione di realtà bucolica e integrazione digitale.
Da quell’animazione, infatti, Sanders sembra non essersi poi tanto allontanato, approcciandosi alla realizzazione di un cane protagonista quanto mai fittizio e ancor più risaltato in quella potenza naturalistica incontrastata, creando fin da subito uno spaesamento con ciò che di veritiero e ciò che di artificiale la pellicola va proponendo, dando l’impressione di non riuscire a riproporre quell’integrazione tra animale e loco di pertinenza che, invece, è quanto mai pregnante nelle intenzioni del racconto di Jack London.
Ma è anche il mancato senso dell’avventura che il film deve affrontare assieme alla presa di coscienza e alla crescita del cane Buck, con il suo eccessivo distendersi dei toni, che pur afferrando le intenzioni principali delle pagine di inizio Novecento, non ne trasmette quell’impeto atavico, quella forza travolgente che faceva riscoprire, nel protagonista, il suo vero senso d’esistere.
Ciò dovuto, senz’altro, ad una freddezza velata da fiaba, che suddivide in compartimenti il tragitto di Buck dal principio fino alla sua essenza, ma facendo dei singoli episodi momenti estemporanei in sé, sonniferi, più pensosi nel voler arrivare alla propria meta che nel godersi l’impresa.
Quando il richiamo non è abbastanza forte
Così come l’apporto di due attori quali Omar Sy e Harrison Ford, contrapposti umani del cane principale. Suoi amici, ma anche padroni, che sapranno, ognuno a suo modo, far scoprire all’animale le sue potenzialità.
Eppure, sebbene fondamentali nelle tappe di Buck, nulla riesce a rendere appassionanti le vicissitudini che i due uomini dovranno affrontare in corrispondenza del cane, posti più per il semplice motivo di dover mandare avanti la storia, che apportare realmente a quest’ultima un significato emotivo e simbolico, tanto come caratteri nel film, quanto come interpreti cinematografici.
Nella scoperta del proprio sé e nel tentare fallacemente di riportare la grandiosità interiore di un racconto come quello de Il richiamo della foresta, il film di Chris Sanders si perde per quei boschi inospitali e quelle lande innevate, chiarisce gli intenti del percorso di Buck, ma non ne permette la vena che avrebbe dovuto rendere avvincente il racconto.
Una novella conosciuta che rimane quello che, da tempo, già conosciamo, ma che non continueremo certo a ricordare grazie alla messinscena e ai sentimenti di questa pellicola.