Immortality, nuovo lavoro di Sam Barlow, è ancora una volta un viaggio all’interno dell’idea che il suo autore ha delle immagini in movimento: tra interpretazioni a domande più grandi dell’umanità stessa
esplorazione nei meandri delle immagini, dei loro significati e dei linguaggi che normalmente vengono utilizzati per comunicare, è un gesto che va fatto con cognizione; avendo ben chiaro l’obiettivo della propria ricerca e riuscendo a calibrare il simbolismo in modo tale che sia il più possibile attinente e coerente con lo scopo. Tuffarsi dentro il visivo e usarlo come principio cardine per il proprio lavoro, piegandolo su se stesso facendolo diventare un feedback loop di messaggio e mezzo, non è affatto un lavoro banale o scontato. Come ci ha insegnato Marshall McLuhan, infatti, la scelta stessa di utilizzare un mezzo specifico trasforma esso nell’oggetto della nostra comunicazione, in un incastro a matrioska di significanti e significati che spesso e volentieri coesistono nella stessa forma. Vedere un’immagine e studiarla, dunque, può diventare farsi vedere dal mondo e dall’immagine stessa: fornire un ritratto di noi attraverso altri ritratti, raccontare la nostra visione attraverso quella altrui che anche se è fittizia e costruita ad hoc sortisce effetti di senso non distanti da questi. Trovo che in questo la carriera di Sam Barlow come game designer sia un esempio piuttosto rilevante – per come studia e ragiona sul visivo – e che Immortality, suo ultimo progetto, possa riassumerne gran parte dei concetti.
Non è soltanto per l’apparente – ovvero per il fatto che Her Story, Telling Lies e lo stesso Immortality si presentino a chi gioca (?) come archivi di filmati live action che deve esplorare per ricostruire (a suo modo) dei misteri – che penso che Barlow sia un autore particolarmente rilevante per quanto riguarda il sapere costruire usando l’immagine e i suoi codici. Come per ogni tipo di linguaggio codificato, infatti, i livelli di interazione con esso dipendono tanto dalla volontà di chi opera di interagirci e, eventualmente, di arrivare a quel grado di profondità per cui interno ed esterno – prodotto e chi produce – collidono e diventano un’entità unica volta al porre quesiti che hanno posizioni multiforme e sguardi che non sono mai a prospettiva univoca.
I tre giochi più famosi di questa persona, e anche il meno considerato Silent Hill: Shattered Memories, sono dunque giochi di sguardi multidirezionali dove la provenienza di origine risulta sempre ambigua, ambivalente, sfumata e incerta riguardo a cosa venga dentro (ovvero diegetico alla storia specifica) e cosa da fuori (ovvero da Barlow stesso). Ovviamente la risposta razionale esiste, ossia che tutto proviene da una mente che è quella autoriale, ma la sospensione dell’incredulità contribuisce ad assottigliare questa nettezza almeno mentre si gioca contribuendo a rendere ancora più coerente e credibile il percorso.
Muoversi dentro immagini che si muovono per recuperare un senso che è contemporaneamente proprio e derivato da ciò che ci ha fatto ci vuole mostrare. È più o meno questa la ragione per cui esistono i lavori di questo autore. Per dare a chi gioca il potere di movimento all’interno di ciò che già si muove, interrompendolo o passando ad altre cose anch’esse in movimento. Qui medium e messaggio, codice e codifica, significante e significato e le loro intersezioni diventano interazione, presa di controllo, decisione.
Che si tratti di registrazioni secretate della polizia, di dubbie videochiamate di cui possiamo vedere solo uno dei due canali o ancora bobine di backstage di lungometraggi inediti; Sam Barlow dona a chi gioca il ruolo della scelta, del giudizio, della ricostruzione di un senso che giocoforza non sarà mai completamente attinente alla visione di partenza ma sempre frutto di una interpretazione. I modi linguistici dello specifico materiale fittizio (le registrazioni avvenute nei mondi che i giochi raccontano, dove esistono), la recitazione e infine l’orchestrazione ludica con cui interagiamo non sono livelli di profondità crescente ma, piuttosto, costanti parallele.
Ho già accennato in modo abbastanza sommario e parziale quale sia il grado e il tipo di immagine che ci troviamo di fronte giocando a Immortality, e credo che ora sia giusto addentrarsi nello specifico e nel dettaglio dei perché credo questo gioco sia il più riuscito dell’autore nei termini di esplorazione dell’immagine. La storia di Marissa Marcel, attrice scomparsa misteriosamente nonché protagonista di tre film che non hanno mai visto la luce (o il buio) delle sale cinematografiche aggiunge e sottolinea moltissimo delle intenzioni e dei modi che Sam Barlow ha di intendere tantissime cose, molte delle quali già viste e accennate in lavori precedenti ma che qui assumono significazioni ancor più evidenti anche e soprattutto in relazione al mezzo fittizio in cui sono inserite: il cinema.
Si presenta dunque la scelta di ricavare la narrazione attraverso quelli che sono a tutti gli effetti tre film recitati e girati, su cui e con i quali è stato progettato l’assetto ludico, che a loro volta sono collocati come retroscena e prove di altrettanti lungometraggi esistenti nel mondo di gioco (ma mai rilasciati). Si estende poi attraverso questo sistema un mistero che si conduce proprio grazie ai modi del cinema, con il rapporto d’aspetto che cambia con il passare degli anni, le modalità di riproduzione attraverso lo svolgimento e riavvolgimento delle bobine. E si arriva poi alla navigazione, all’interazione cruda con cui ci interfacciamo: non più, come nei giochi precedenti, basata sulla parola da ricercare ma collegamenti al montaggio a partire da elementi chiave nella specifica scena che portano ad altre scene in cui compare qualcosa di simile, un dettaglio che possa creare un senso all’interno del quadro generale di Immortality.
Ma non è solo di cinema e di come lo intendiamo culturalmente di cui parla Immortality, o per meglio dire – anche qui – i significati e i sensi sono inseriti uno dentro l’altro e mantenuti costantemente in parallelo anziché in diversi gradi. Senza addentrarmi troppo, la storia tirata su Barlow in concerto con menti autorevoli della sceneggiatura cinematografica e televisiva (che hanno lavorato, tra le altre cose, a Strade Perdute, Cuore Selvaggio e Mr. Robot) e che parte dal cercare di scoprire cosa sia successo alla sua protagonista diventa la base su cui ragionare circa il significato stesso della parola mistero, del rivelare dei segreti e dell’aver bisogno di risposte logiche e razionali a domande più grandi della nostra stessa specie. Chiamatela religione, chiamatela filosofia o ancora cultura del mistico attraverso le tradizioni: la vicenda si sviluppa in cerca di questi modi, alludendo al fatto che non esista una risposta univoca ma solo una serie pressoché infinita di interpretazioni tutte ugualmente valide.
Il cinema, i suoi modi, i suoi temi e i suoi linguaggi (relativi al genere o alle dinamiche delle produzioni) diventano quindi non soltanto un supporto al contenuto morale ed etico che viene tirato in ballo ma vera e propria struttura allegorica a sua volta contenuta in un racconto fantastico (quindi allegorico e metaforico per antonomasia). Un’operazione di inserimento molteplice e metanarrativo che sulla carta potrebbe sembrare pigra e prevedibile ma che, invece, riesce a risaltare proprio per come avvicina, allontana, ricostruisce e distrugge l’immagine e il modo con cui interagiamo con essa. Un esempio su tutti è riscontrabile nel come Immortality propone le scene quando chi gioca interagisce con un elemento: in un modo che sembra essere logico, poi diventa casuale legato a una sorta di algoritmo di associazione e poi si trasforma in una terza cosa che è entrambe e nessuna di essa a seconda del come e del perché la persona che sta giocando decide di piegarla a se stessa. Piegamento e distorsione che, ovviamente, subiscono anche le scene stesse, a cui chi gioca può approcciarsi come meglio crede per ricostruire il proprio senso a prescindere che sia a partire da un elemento specifico o dall’inizio di quella sezione, che sia in ordine cronologico o di come il singolo film era inteso in fase di sceneggiatura.
Per concludere: l’amore e la ricerca di senso nell’immagine, motore di ogni lavoro di Sam Barlow, sono i principi cardine di Immortality. Un percorso attraverso il movimento e i codici del cinema che prima di tutto è ragionamento del come guardiamo le cose, che senso diamo loro e come ci approcciamo con altri sguardi diversi dal nostro e, di conseguenza, quante risposte a quante domande riusciamo a dare grazie a questa mediazione costante. Un videogioco che è film, un film che è videogioco: tre film finti che sono storia finta di un’osservazione del vero. Guardare e giocare che sono la stessa cosa ma non lo sono mai, se non per la discrezione del nostro sguardo che sarà sempre distantissimo (ma incredibilmente vicino) a quello altrui.