I videogiochi horror hanno bisogno di fare un passo indietro per fare un passo avanti
Oggi riflettevo su uno dei miei generi videoludici preferiti in assoluto, in un momento storico in cui da un po’ mi manca un vero titolo monumentale del filone da godere (l’ultimo è stato l’ottimo Resident Evil Village che però non trova di certo nella sua anima orrorifica il suo punto forte). E pensavo a cosa vorrei (ri)trovare nelle mie future esperienze terrorizzanti virtuali. Il concetto che per primo mi si è palesato in testa in tal senso è stato questo: la presenza di un hunter, di un predatore, di un’ombra sempre in agguato nel genere horror ne rappresenta una ideale evoluzione se innestata bene nella struttura di gioco, perché ne destruttura le istanze e distrugge le certezze.
E sappiamo bene quanto nell’horror, in ogni media in cui si declina, il nemico acerrimo è la prevedibilità. Il buon film horror la contrasta solitamente in due modi: o propone un setting totalmente indecifrabile per il quale si bypassa l’intuizione dello spettatore, come può succedere in un It Follow o un La Casa Delle Bambole, o nel caso di contesti più classici si disattendono le sue aspettative, ingannandolo arbitrariamente, piazzando quel momento di terrore non esattamente quando uno se lo aspetta ma eventualmente un attimo prima o un attimo dopo. Nei videogiochi l’ineluttabilità dei momenti è ben più difficile da rendere efficace, non c’è troppo spazio per lavorare di fino a livello registico per spiazzare sempre il giocatore.
In Resident Evil il corridoio in cui i cani sfondano la finestra, sarà sempre lì uguale a sé stesso. Anche alla centesima partita. Scardinare questa prevedibilità è molto difficile, soprattutto nei videogiochi, perché l’interazione del giocatore non permette la libertà di controllare sempre il suo sguardo come si fa nei film. La presenza di un’altra entità nella struttura di gioco che abbia “le stesse facoltà” del giocatore di navigare nell’ambiente senza quei limiti tecnici e istanziali che di solito donano a quest’ultimo una certa familiarità con il level design, è a mio parere la carta vincente per far evolvere il genere nell’ambito del videogioco.
Questo elemento non è certo nulla di nuovo o originale, già si esplorava l’efficacia di una variabile dinamica di questo tipo in tempi non sospetti con giochi come Clock Tower e la presenza dell’implacabile Scissor Man, ma siamo tutt’oggi ben lontani dallo sviluppo completo delle sue potenzialità. Progetti indie come Slender Man o simili utilizzarono questo espediente in maniera blanda, altri come Outlast innestavano la meccanica in segmenti troppo lineari in modo da non disinnescare in fin dei conti i limiti di un’esperienza circostanziata a momenti dal diverso taglio ludico fin troppo leggibili per creare davvero una forma di tensione diversa dal solito. Capcom ha evoluto il ruolo dell’Hunter nella sua saga di Resident Evil, con Mr.X e Nemesis, e poi con Jack Baker in Resident Evil 7, e nelle porzioni di gioco in cui questi braccano il giocatore effettivamente alzavano il livello dell’esperienza verso quei lidi di ansia divertita che auspico come standard e nuovo livello di coinvolgimento nei videogiochi horror.
Standard in cui la comfort zone data dalla preveggenza del giocatore smaliziato sia totalmente annichilita, dove l’incertezza per la sopravvivenza del proprio avatar digitale sia messa a repentaglio a ogni passo senza soluzione di continuità, una esperienza che si distacchi nettamente dai titoli in cui la progressione è sezionata in situazioni ben distinte e ben definite per dare una diversa e artificiosa intensità di tensione e pericolosità.
C’è però solo un titolo ad oggi che concretizza questo ideale al 100% ed è Alien Isolation. Nel gioco di The Creative Assembly del 2014 lo xenomorfo (salvo alcune specifici e non rilevanti momenti nell’economia generale dell’esperienza) è quella instabile e dinamica variabile che condiziona completamente l’approccio e la percezione che si ha di ogni singolo ambiente di gioco, anche quello di mero raccordo tra 2 macrosezioni, anche il momento più interlocutorio e apparentemente tranquillo della progressione narrativa. Il lavoro che il team inglese ha realizzato per non farti sentire mai solo è magniloquente e per molti versi sottovalutato, visto che, a diversi anni di distanza dalla pubblicazione di Isolation, un altro titolo così articolato e incentrato sul concetto di preda e predatore non è mai uscito.
Rompere le barriere: questo faceva Isolation. Eliminare gli artifici di game design che permettono al giocatore di scandire e gestire con relativa tranquillità la sua progressione, conoscendo i limiti delle minacce poste dagli sviluppatori. Il level design di Isolation è costruito infatti su due livelli paralleli, quello percorribile dalla nostra Amanda Ripley e quello in cui striscia indisturbato e nascosto il letale xenomorfo.
Anche Visage fa qualcosa di simile sebbene in quel caso la minaccia sia più indefinita, ovvero l’oscurità da evitare il più possibile che si manifesta in molti orribili modi. La costante rimane la dinamicità in tempo reale e senza script di quello che accade a schermo, ma la sottile quanto tangibile differenza rispetto ad Isolation è che, nel caso di Visage, è possibile tenere sotto controllo molto di più questa variabile, che sostanzialmente consiste nella luce che riusciamo a mantenere tra le tenebre dell’abitazione infestata, mentre lo xenomorfo è un’entità che si muove totalmente indipendente rispetto alla nostra volontà per tutto il corso dell’avventura, pur avendo noi gli strumenti per depistarlo.
Questa impotenza verso la minaccia aliena destabilizza la nostra forma mentis, fatta di anni e anni di meccaniche nei videogiochi scandite sempre in un certo modo. L’essere braccati senza sosta crea un effetto domino su molte altre operazioni automatizzate, assimilate, ripetitive. Queste rinvigoriscono nella loro verve di elemento interattivo che non è più solo “riempitivo”. Parlo di tutte quelle operazioni e quei momenti in cui lo standard videoludico ci ha abituato a sentirci al sicuro: azionare dispositivi, tirare leve, premere pulsanti, leggere file di testo, persino salvare la partita.
Quelle che sono trite e ritrite, noiose, routine interattive che permettono di tirare un sospiro di sollievo nel patto implicito tra gioco e giocatore, all’interno di strutture moderne, formalizzate, che hanno istituzionalizzato specifiche istanze come prive di pericolo, sanciscono la morte della sospensione dell’incredulità nel genere horror, almeno per i giocatori smaliziati.
In un gioco come Alien Isolation invece queste si integrano nel mood ansiogeno, diventano veri e propri traguardi, non rompono assolutamente l’illusione della minaccia e questo permette addirittura di abusare di enigmi a base di schiaccia, tira, infila, premi, sposta, apri, chiudi eccetera, perché scegliere il momento giusto anche per la più semplice delle azioni diventa parte del gioco, del coinvolgimento, visto che non esiste un trigger interattivo nell’avventura che non possa essere interrotto da un attacco letale dello xenomorfo. Senza contare che l’elemento dinamico che si inserisce nella progressione sistematica, tipica delle avventure, ridefinisce in positivo i concetti di rigiocabilità e backtracking nella loro fruibilità e valenza ludica.
Persino in quel gran pezzo di gioco che è Resident Evil 2, durante le fasi in cui Mr. X ci segue nella stazione della polizia, ci sono zone franche, solitamente le stanze in cui salvare la partita, in cui il monumentale bestione si blocca all’improvviso e senza apparente motivo. Non c’è il “coraggio” di disturbare il giocatore dove non se lo aspetta. Ma più osi in tal senso, più rafforzi il fattore ansiogeno e di conseguenza il coinvolgimento. Il problema è che dopo un apice toccato dal titolo di The Creative Assembly, si è sempre di più ridimensionata la potenzialità di questa formula.
Voglio più horror come Isolation, come Visage, esperienze dinamiche, procedurali in un certo senso, che sappiano sfruttare la presenza di una nemesi implacabile non semplicemente per isolarla in particolari momenti adrenalinici di fughe o per cambiare brevemente il ritmo dell’azione. Non che ci sia qualcosa di male ma il genere ha bisogno di qualcosa di più. Serve un’entità nostra nemica che sia in grado di integrarsi in una struttura di gioco complessa non lineare e sofisticata, che ci segua e ci sorprenda dall’inizio alla fine, dando ad ogni nostra operazione nella progressione, anche la più insignificante, quella urgenza e quella sensazione di essere osservati che può renderla avvincente, per generare una esperienza in cui è costante la sensazione sentirsi sul filo del rasoio della sopravvivenza. Tirare un sospiro di sollievo solo per aver avuto il tempo di leggere due righe sullo schermo di un computer o per aver attivato un dispositivo per salvare la partita, è tanto banale quanto geniale, tanto scontato quanto necessario, nel survival horror del domani.