Cosa c’è oltre le chiese della Russia immaginata da Odd Meter?
Premendo play su un trailer di Indika si rimane estasiati: la Russia tratteggiata nel gioco è splendida nel suo essere surreale, contemporaneamente verosimile e rarefatta, impensabile. E anche la promessa dello sviluppatore è di quelle a cui è difficile restare indifferenti: si vuole riflettere sulla fede e sulla società in un gioco che, parafraso, propone lunghe camminate durante le quali i personaggi parlano e ci sottopongono questioni importanti, di quelle che dovrebbero rimanerci attaccate spronandoci alla riflessione, attingendo e riferendosi ai classici della letteratura russa come Bulgakov e Dostoevskij o a grandi registi contemporanei come Lanthimos, Aster e Aronofsky.
Il problema di quando si setta l’asticella molto alta è che poi bisogna pure riuscire, se non a superarla, quantomeno a raggiungerla. E Indika sembra voler essere qualcosa di molto più elevato di quanto poi non sia nei fatti. Se abbiamo dei rimandi tematici ed estetici agli autori sopraccitati, quello che manca è la sostanza e soprattutto un utilizzo sensato degli strumenti del videogioco. E anzi, quando Indika cerca di ragionare sul videogioco inteso come medium si perde in questioni che abbiamo già visto trattate con maggiore eleganza e consapevolezza in passato, mostrando ancora di più come l’approccio di Odd Meter sembri essere più estetico che sostanziale.
Cominciamo da principio però: Indika è una suora in una Russia immaginaria del primo XX secolo, prima della rivoluzione. L’inizio del gioco ci vede in un convento intente a svolgere compiti triviali per ordine delle altre suore. Scopriamo che Indika non è vista di buon occhio, e capiamo che anche a lei sta un po’ stretta la vita monastica: ha dubbi sulla fede e non agisce sempre in completo accordo con essa mentre un diavolo (il Diavolo?) le parla nella testa e ha strane e grottesche visioni. Il punto di svolta arriva quando le viene chiesto di consegnare una lettera, compito che le richiederà di uscire dalle labirintiche e ciclopiche mura del convento. Quasi appena uscita incontrerà Ilya, un soldato disertore con un braccio in cancrena convinto che Dio gli parli e che il braccio, ormai in cancrena da una settimana, che non lo ha ancora ucciso ne sia l’esempio evidente.
Da qui inizierà un viaggio surreale attraverso luoghi improbabili, durante il quale Indika e Ilya discuteranno spesso della fede e di cosa significhi, partendo da due premesse piuttosto opposte: Indika è una suora che cerca di convincersi della correttezza dei precetti religiosi anche quando sente altro e il Diavolo le parla, mentre Ilya parte da una situazione di disillusione e cinismo ma è convinto di essere il prescelto di Dio.
Il primo problema, e forse il più evidente di Indika, è nella sua struttura ludica. Quello che si fa non è mai al servizio di quello che si vuole raccontare, ma sembra messo lì per fare in modo che il giocatore abbia qualcosa da fare tra un dialogo e l’altro. Per il 99% del tempo il gioco funziona esattamente come A Plague Tale: Innocence: fasi in cui si cammina con i personaggi che parlano tra loro si alternano a puzzle ambientali e, più raramente, a fasi di fuga. La differenza è che in A Plague Tale questo tipo di struttura è perfettamente concorde al tipo di racconto che si vuole costruire, mentre in Indika, che non ha neanche un gran design dei puzzle, risulta addirittura anticlimatica perché gli enigmi spezzano le ottime suggestioni visive riportando gli ambienti ad essere “spazi funzionali agli enigmi di un videogioco”, mentre quando sono ambienti che semplicemente attraversiamo restituiscono meglio quel senso di alterità così utile alla costruzione di momenti tanto alienanti quanto suggestivi.
La struttura a puzzle ambientali è così un volàno, una cosa che se negli intenti degli autori probabilmente serviva a rendere il gioco meno noioso (ma viva i giochi noiosi!) ha come risultato quello di frammentare l’esperienza depotenziando quello che è il vero punto forte dell’avventura, ovvero le ambientazioni.
Queste rendono evidente la formazione in architettura dell’art director del gioco oltre che una visione artistica il cui risultato è veramente d’impatto: in Indika vedremo spesso gli edifici arrampicarsi l’uno sull’altro o conformarsi in modi impossibili con baracche in legno che crescono in altezza fino al cielo, mentre sovente le cupole delle chiese ortodosse ci osservano giudicano dall’alto. C’è quasi sempre la percezione di essere in un labirinto, anche quando le zone sono aperte, data l’apparente illogicità in cui alle architetture russe si alternano il ferro e i macchinari della nascente industria della Russia pre-sovietica. Un susseguirsi di stimoli visivi che rappresentano bene le sovrapposizioni e le idiosincrasie di quello che fu un momento di transizione fondamentale per la Russia sotto il profilo politico e produttivo, e di conseguenza anche artistico-letterario.
Meno efficace invece è il modo in cui sono affrontate le tematiche. Credo abbia senso dividere i temi di Indika in due categorie: la religione e il linguaggio videogioco.
In entrambi i casi la sensazione che ho avuto è una certa pretenziosità nel voler portare avanti dei ragionamenti che nella sostanza si rivelano essere piuttosto banali. Partendo dal ragionamento sui videogame, Indika ci propone un sistema di progressione fine a sé stesso, all’interno del quale al ritrovamento di oggetti collezionabili corrisponde il guadagno di punti esperienza (punti fede), che possono essere spesi all’interno di uno skill tree totalmente inutile in cui le skill hanno sempre lo stesso effetto, che altro non è che l’aumentare la quantità guadagnata alla prossima occasione utile sempre degli stessi punti in un loop infinito. In maniera anche un po’ inelegante (grazie Odd Meter ma c’eravamo arrivati pure da soli) il gioco ci avverte che i punti non hanno nessuno scopo se non quello di essere accumulati. E questo non è un ragionamento nuovo o interessante, e neanche è portato avanti in maniera utile a sviluppare un discorso sulla gratificazione per l’accumulo di risorse (o l’utilità di queste) nei videogiochi.
Sì, spesso l’accumulo è fine a sé stesso e molte reward nei videogiochi seguono questo principio, ma è anche vero che l’essere “fine a sé stesso” non significa necessariamente inutile. La meccanica specifica poi, ovvero il raccoglimento di icone religiose a cui corrispondono punti fede, è anche un po’ sbrigativa nel tracciare una freccia netta che raccorda l’esposizione alla religione con l’aumento della fede, che ricordiamo essere nel gioco risorsa quantificabile e anche esplicitamente inutile nell’economia di gioco. Ora, da persona atea, questo “tagliare con l’accetta” questioni su cui si scrive da secoli (riguardo alla fede) o da anni (riguardo ai videogiochi) mi sembra un po’ il voler prendere la posizione radicale costruita su convinzioni tanto poco informate quanto granitiche dello studente di terzo liceo.
Dico questo anche perché le varie riflessioni proposte da Indika su cosa sia la fede, cosa sia il giusto e cosa sia lo sbagliato e qual è la condizione dell’uomo mi sembrano abbastanza poco stimolanti, sostanzialmente perché già sentite. Non hanno la capacità di porre un vero interrogativo, di mettere in difficoltà, di esporre un aspetto nuovo del problema. Non mi sono mai trovato a farmi una domanda seguendo quello che i personaggi dibattevano a schermo, e – non vorrei sembrare arrogante nello scriverlo – questo è dovuto al fatto che si tratta di domande che bene o male mi ero già posto, e sono convinto che questo sia vero anche per la maggior parte del pubblico a cui guarda Indika. La riflessione sul fatto che il concetto di giusto o sbagliato non possa essere netto come vorrebbe la religione non è nulla di nuovo, così come abbiamo già risposto alla domanda se sia giusto che un uomo abbia più fortuna di un altro.
Sembra un po’ come se alcune domande un po’ banali, e mi perdonerete se uso ancora una volta la parola banali così come spero mi perdonerete se mi scuso per questo, ma è sempre brutto e ha il gusto dell’arroganza il definire “banale” un pensiero di qualcun altro, siano state messe in bella forma e calate in un contesto estetico molto efficace per essere nobilitate, quando poi a stringere non c’è niente di veramente interessante o nuovo.
Quando poi si vanno anche a considerare le suggestioni e le ispirazioni la sensazione che ho avuto è quella di un gioco in cui si vuol mostrare di aver letto i classici della letteratura, di essere sul pezzo sul cinema colto contemporaneo e di aver voluto incorporare nel proprio gioco elementi derivanti da questo bagaglio culturale, senza che poi però il risulato riesca effettivamente a stare sulle sue gambe una volta spogliato dai “riferimenti colti” e dalla corsa alla citazione.