In quel di Romics 2018 abbiamo avuto l’onore e il piacere di intervistare Massimo Rotundo, storica firma del disegno e fumetto italiano nonché insegnante colonna della Scuola Romana dei Fumetti e, proprio nella suddetta manifestazione, premiato con il Romics d’Oro insieme a Martin Freeman e Tsukasa Hojo. Volete sapere com’è andata? Ecco di seguito il resoconto della nostra intervista.
Innanzitutto, grazie mille a nome di tutta Stay Nerd per quest’intervista. Partiamo subito dal Romics d’Oro: come si vive un riconoscimento come questo?
Come un punto di partenza, non di arrivo. I premi si vivono così, secondo me, ognuno è uno stimolo a fare meglio. La magia, l’alchimia di questo lavoro è legata al fatto che si possono sempre scoprire cose nuove, migliorare, sperimentare, altrimenti diventa routine.
A proposito di questa tua filosofia, da disegnatore storico, in che situazione ti sembra stia versando il fumetto attuale?
Non conosco i dati di vendita, se c’è una crisi delle edicole, ad esempio, o se il pubblico compri di meno, nonostante le manifestazioni fumettistiche siano sempre piene. Sono analisi che non mi competono. A livello di vivacità, però, le case editrici sperimentano molto, il fumetto è arrivato in posti che prima gli erano preclusi e il cinema vi attinge come non mai. Quindi i dati positivi ci sono. Dal punto di vista culturale c’è molto fermento. E i giovani devono approfittare di ciò. Ad esempio, io ho fatto la gavetta su fumetti a dir poco dozzinali, per così dire. Disegnavo sfondi, inchiostravo e guadagnavo quasi zero. Oggi se si ha una bella storia e un’idea grafica su come svilupparla, può realizzare un’ottima graphic novel.
Con tutte queste nuove occasioni di esprimersi, gli artisti oggi godono di una libertà, come sottolinei, senza precedenti. Ma i limiti del passato insegnavano anche molto. Cos’è quindi, di questa eredità o tradizione, che i nuovi artisti non dovrebbero dimenticare?
Bella domanda. Sono cambiate moltissime cose. Ad esempio, leggendo la prefazione di Robert Kirkman a Oblivion Song, in cui dice di aver trovato Lorenzo De Felici, che è stato un mio allievo e amico, in rete. Questo, quando ho cominciato io, era impensabile, bisognava viaggiare, presentarti di persona allo sceneggiatore. E prima si faceva la gavetta negli studi professionali, dove si facevano fumetti seriali: lavoravi, imparavi il mestiere e cercavi di “rubare” agli artisti più esperti di te. Ora ci sono le scuole, che condensano questo lavoro in lezioni con autori di grande calibro ad insegnare. Almeno, così facciamo nella Scuola Romana dei Fumetti, dove cerchiamo anche di sperimentare molto, per conoscere i ferri del mestiere ma avere anche un impatto culturale. Tornando nello specifico alla tua domanda, gli artisti di oggi non dovrebbero perdere la capacità di mantenere la propria professionalità, sempre. Se delle mattine, ad esempio, mi alzo e non ho voglia di disegnare, me la faccio venire, e questo è un lascito della palestra fatta negli anni ’70-’80. Evitando la discontinuità, per il resto, ci sono tantissime opportunità.
Hai citato la Scuola Romana dei Fumetti, dove insegni. Cosa cambia dall’essere un autore all’essere un insegnante? È una transizione che si manifesta da sé o ci sono differenze sostanziali?
Ho cominciato come insegnante a vent’anni, facendo supplenze, e mi sono dimesso da quella scuola poco prima di diventare di ruolo. Non mi piaceva il metodo, ero giovane e, come diceva mio padre, “fuori di testa”, per aver rifiutato un posto fisso. Ma mi rimase sempre il tarlo dell’insegnamento, trasmettere le lezioni dei maestri. E poi, insegnando si impara: lo studio che richiede fare lezioni efficaci e convincenti non può che migliorarti. Mi sono sempre sentito in dovere di dare questo qualcosa che a me era mancato, quindi l’ho fatto per passione. Oltre che per staccare un po’ dal lavoro a tavolino e conoscere e confrontarmi con le nuove leve. Ma la cosa più importante era proprio trasmettere ciò che avevo imparato io, dai maestri della pittura e del fumetto.
Com’è Massimo Rotundo da insegnante?
Beh, mi sporco le mani, sono molto pratico. Cerco di parlare poco e mostrare tanto, fare insieme ai ragazzi. Ognuno cerca e dà al disegno a modo proprio. Poi questa è la mia filosofia, ogni insegnante ha il proprio metodo.
Hai citato poco fa il rapporto crescente tra cinema e fumetto. Sono solo due dei medium che, ultimamente, indulgono spesso in reboot e remake. C’è qualcosa nel tuo passato di cui disegneresti un’attualizzazione?
Rifarei un sacco di cose. Io ho il vizio di disegnare fumetti molto a contatto con il testo, a volte adattando il mio segno grafico alla storia, senza snaturarlo. A volte l’operazione riesce di più, altre di meno, quindi rifarei molte storie disegnandole in maniera diversa, con una diversa maturità. Un mio rimpianto è una storia di Magnus lo sconosciuto, un personaggio dal disegno inconfondibile. Fu un soggetto che non fu portato a termine, e più che fare un remake completerei quella storia.
A proposito del rapporto con il testo, trovi che oggi sia cambiato il rapporto tra disegnatore e sceneggiatore?
Dipende dallo sceneggiatore. Ne trovi di disponibili, di altri che preferiscono mantenere le distanze, capita di disegnare storie stando molto a contatto e viceversa. Dipende dall’individuo. Nel fumetto, poi, ci sono moltissimi bravi sceneggiatori e autori costretti dalla serialità a confrontarsi con numeri produttivi in media superiori a letteratura e cinema. Perciò ci vuole un grande mestiere. Io stesso ho scritto diverse storie, tra lavori francesi e tutto il resto, ma non me la sentirei di affrontare un lavoro seriale, che richiede capacità notevoli.