In occasione del nostro incontro con il team di InvaderGames abbiamo potuto approfondire qualche argomento in compagnia di Andrea Bonsignore, amministratore delegato e programmatore informatico e Michele Giannone, Business Development e PR, che ci hanno permesso di conoscere meglio il loro lavoro e quello che ci sta intorno.
Nel video di presentazione del vostro Patreon affermate che ”un grosso problema del mercato videoludico attuale è che molte grandi software house si sono allontanate dai propri clienti, non rendendosi conto di che cosa ha bisogno un vero giocatore”. Ecco, la domanda ci sorge quindi spontanea, di cosa ha bisogno realmente il videogiocatore secondo voi?
Andrea: Le software house attuali puntano sempre sul lato tecnico, il focus del gioco diventa cosi la cornice e non il fulcro ludico, togliendogli di fatto l’anima. La gente si ritrova prodotti sempre più poveri, seppur tecnicamente ineccepibili. Il videogiocatore vuole la consistenza, qualcosa che lo attiri, lo coinvolga. Una delle cose bellissime dei vecchi videogiochi, come ad esempio quelli per PlayStation ma anche precedenti, era che ti trasmettevano la passione con cui gli sviluppatori avevano creato il gioco, al di là della realizzazione grafica più o meno riuscita. Oggi questa cosa è quasi sparita, ma tanti giocatori se ne accorgono, infatti si spostano sempre di più nel mercato indipendente.
Diciamo insomma che c’è uno spartiacque tra giocatori nuovi che conoscono il mercato dei videogiochi solo per quello che è oggi e altri invece che ne ricordano uno spirito diverso in passato…
Andrea: Ma è normale che ci sia questo spartiacque e che ci siano giocatori più casuali o hardcore. Se però chi produce da sempre giochi destinati ad un pubblico diciamo “hardcore”, decide di indirizzarsi sui casual perché cosi gli dice il mercato, perde entrambi i tipi di pubblico scontentando gli uni che si sentono traditi e gli altri che già di partenza guardano con scetticismo generi e brand appartenenti ad una certa nicchia. Prendiamo come esempio Resident Evil 6: il giocatore tipo di Resident Evil non è casual, ma impostando il sesto capitolo come ha fatto Capcom cercarono di strizzare l’occhio alla fetta di utenti più ampia possibile, toppando. Non a caso RE 6 ha venduto poco e comunque è stato ampiamente criticato.
Quindi la vostra dichiarazione di intenti è di non fare lo stesso errore e indirizzarvi ad un pubblico preciso?
Andrea: Certo, non intendiamo accontentare tutti ma cerchiamo di fare quello che esattamente si aspetta il tipo di giocatore a cui è rivolto il nostro lavoro.
Michele: La fortuna di essere “piccoli” è che puoi fare quello che vuoi, cercando inizialmente di accontentarti dei risultati che ti permettano di andare avanti per espandere i tuoi progetti nella direzione che meglio preferisci.
Andrea: Il successo personale è quando il videogiocatore ha appreso e percepito quello che tu riesci a inserire di tuo nel gioco. Questo determina il successo: lasciare dentro il proprio lavoro un pezzo di sé che riesca ad arrivare al giocatore.
Michele: Se ci pensate è un po’ come nei film, in genere non rimane certo impresso a lungo termine quello tecnicamente più sbalorditivo per quanto bello da vedere, ma piuttosto quello che ti dice qualcosa, che ti lascia qualche sensazione.
Avete deciso di partire direttamente con progetti abbastanza grossi quando solitamente la tendenza degli sviluppatori indipendenti è quella di cominciare con qualcosa di tecnicamente semplice, magari in 2D. Come siete arrivati a bruciare così le tappe?
Andrea: È stata un po’ una prova di forza: tutti sono capaci di partire da un piccolo software che può avere più o meno successo e che può essere fatto anche solo da una persona. La nostra è stata una sfida, quella di porci da subito grossi obiettivi. Volevamo immediatamente capire se abbiamo messo in piedi un team che, per quanto piccolo, può affrontare progetti abbastanza “grandi” e per quello che abbiamo fatto finora, pur trovandoci in una fase ancora embrionale, possiamo parlare di un buon inizio.
Michele: La fortuna è stata anche partire da un punto che potremmo definire… “avanzato”. I nostri programmatori con RE2 Reborn stavano già affrontando uno dei progetti basati su Unity più ambiziosi in assoluto. Quindi tutto il resto è venuto decisamente facile.
Andrea: Resident Evil 2 Reborn serve proprio per vedere se riusciamo a seguire tutti gli step che necessita solitamente un progetto di questa portata, e a giudicare dai primi feedback (come quello positivo del director originale Hideki Kamiya), ci stiamo muovendo nella direzione giusta.
Come si è posta Capcom, se lo ha fatto in qualche modo, nei confronti del vostro lavoro?
Michele: Per una questione diciamo “gerarchica” non abbiamo parlato direttamente con loro ma con Halifax che gestisce i giochi Capcom in Italia. Tramite loro e visti gli ottimi risultati del download (più di 300.000 nel mondo) siamo riusciti ad avere un contatto in qualche modo “indiretto”, insomma, possiamo dire che sanno che ci stiamo lavorando. Il fatto che abbiamo la possibilità di farci notare da un colosso come loro è interessante perché possiamo mostrare come noi vediamo in chiave moderna Resident Evil 2, possiamo mostrarci come veri autori che mettono le mani su una loro opera con cognizione di causa e non semplicemente per un rinnovamento grafico. Una volta che avremo numeri e un prodotto più finito, vedremo se arriverà un supporto, un giudizio, o comunque una qualsiasi forma di feedback più diretto da parte loro. Anche solo una loro approvazione sarebbe il massimo.
Ecco, rimaniamo un attimo sulla vostra nuova contestualizzazione del titolo originale. Nella vostra pagina web parlate di “un nuovo mondo che unisca la vecchia anima del gioco a nuove ed interessanti features scritte da zero”, potete dirci qualcosa di più in proposito?
Michele: Sarà un esperienza veramente survival horror, perché tra il primo Resident Evil e il secondo, se ricordate c’è un netto stacco in questo. Vogliamo mettere di fronte al giocatore zombie molto più duri da mandare a terra, che ti limitano con insistenza il passaggio, che non ti permettono di scappare tanto facilmente. Le munizioni saranno pochissime andranno ben ponderate e non basteranno mai. Alcune sezioni inoltre saranno modificate a livello strutturale per essere più immersive e interattive. Ci saranno inedite scene scriptate e cinematografiche. Infine RE 2 Reborn avrà un concept grafico e un’estetica molto più oscura, si giocherà molto con il buio, la torcia ecc.
Andrea: La gente si deve trovare sostanzialmente davanti un gioco completamente diverso. Il nome Resident Evil 2 Reborn non è stato scelto a caso, indica la rinascita di un titolo che all’epoca ebbe un successo clamoroso e uno di quelli a cui teniamo di più anche noi. In una chiave più moderna, pensiamo che questo gioco abbia davvero tantissimo potenziale che fino a oggi non poteva essere espresso. Il giocatore che impugna il controller deve abbandonare l’idea di giocare a Resident Evil 2 e di sapere cosa lo aspetta. No, è Re2 Reborn, è una cosa diversa e imprevedibile. È una esperienza che alla sua conclusione ti farà dire: “io sono sopravvissuto a questo gioco”.
Ok, ci avete messo davvero una voglia di provarlo incredibile. Sappiamo che lo sviluppo ha subito dei ritardi e ci chiediamo a questo punto quando potrebbe essere pronto?
Andrea: Lo abbiamo dovuto rimandare non per colpa nostra. Abbiamo usato Unity che è notoriamente molto “facile” da gestire. Ma come gli stessi autori del motore hanno dichiarato, non è fatto per progetti troppo grossi e quando Resident Evil Reborn è diventato di fatto un progetto grosso abbiamo trovato tutte le magagne tecniche e i limiti di Unity, che non era in grado di gestire tutto quello che c’era nel gioco. Abbiamo così deciso, anziché togliere il feeling e rinunciare a features e caratteristiche che volevamo assolutamente nel prodotto finito, di aspettare il nuovo aggiornamento di Unity 5, e allo stesso tempo ci siamo affacciati all’Unreal Engine che nel frattempo è diventato gratis. Dobbiamo decidere quindi su che motore continuare e poi a quel punto partiremo con il rush finale. Diciamo solo quindi che in un modo o nell’altro, Resident Evil 2 Reborn uscirà entro il 2015.
Possiamo dire quindi che Unity a dieci anni dalla sua creazione non riesce più a stare a passo con i tempi nella gestione di certi tipi di progetti?
Andrea: Unity mi fa arrabbiare come sviluppatore per un motivo: è un motore eccezionale dalle altissime potenzialità, è concepito in modo che il programmatore non si debba preoccupare tanto di cosa sta sviluppando, ma sostanzialmente del fatto che questa cosa funzioni, perché poi è il motore stesso che si preoccupa dell’ottimizzazione e dell’implementazione nel software. Sotto questo profilo ha tutto pronto ed è affidabile. Il problema è che i suoi creatori pagano lo scotto di una condotta di sviluppo sempre con una mentalità orientata solo al mercato. Cercano fondamentalmente di arrivare sempre primi. Perciò le caratteristiche che implementano sono sempre ottimizzate a metà. Un esempio: Unity 5 che è uscito recentemente, doveva avere la possibilità di implementare una illuminazione HD dello stesso tipo di quella che usa Unreal Engine. Il problema è che questo modulo nel momento in cui hanno pubblicato l’aggiornamento non era ancora completo e per uscire prima di Unreal hanno tirato fuori una nuova versione piena di problematiche legate alla scarsa ottimizzazione dei vari tools. Tirando le somme, rilasciare un engine cosi per giochi più piccoli non è un problema, ma lo è per progetti come il nostro, e non solo il nostro. Su Unity è stata sviluppata roba come Oddworld: Abe’s Oddysee New ‘n’ Tasty, e tutti gli sviluppatori hanno dichiarato che il motore è ottimo ma non riesce a sostenere la gestione di giochi troppo complessi. Speriamo che i suoi autori capiscano che hanno creato un engine veramente potente e utile ma che chi ne usufruisce fa parte di un target molto più ampio di quello per il quale lo avevano inizialmente progettato.
Qualcosa sul vostro progetto misterioso? Dai fateci contenti…
Andrea: Diciamo solo che è un gioco per PC di genere RTS che sembrerà inizialmente non complesso ma sarà invece molto profondo. Una caratteristica in particolare lo renderà molto diverso dai titoli simili. Non possiamo dare altre anticipazioni ma sarà una bella sorpresa.
All’ultimo Global Game Jam avete avuto a che fare con Google Cardboard. Visto che vi siete cimentati in un certo qual modo con la realtà virtuale, quali sono secondo voi le vere potenzialità di questa nuova deriva del videogioco? Pensate che lo sviluppo indipendente sia importante perché queste possano esprimersi pienamente, vista la sempre ridotta propensione al rischio che caratterizza la filosofia delle grandi software house?
Andrea: Per come abbiamo affrontato noi l’argomento “realtà virtuale”, ovvero il lato tecnico, possiamo dire che è sicuramente uno strumento interessante. Permette di pensare un gioco, anche molto semplice, in un modo completamente diverso, e di trattare il giocatore sotto una nuova prospettiva all’interno del videogioco. Noi pensiamo che la realtà virtuale abbia davvero grosse potenzialità nel futuro perché di fatto rappresenta un ulteriore livello di immersione. Il problema è che sono tecnologie ancora acerbe, c’è sempre bisogno di un dispositivo esterno spesso costoso (Cardboard a parte) e ci sono ancora diversi problemi tecnici. È un campo ancora molto sperimentale, ha un futuro ma non è il momento di buttarcisi dentro a capofitto, c’è ancora un piccolo periodo di rodaggio da fare. Gli sviluppatori indipendenti comunque sono proprio il cuore di questo campo: tutti i feedback che hanno le aziende come Oculus, Google, Valve ecc. arrivano da loro e sarà sempre grazie a loro che ci saranno miglioramenti e ottimizzazioni dei vari dispositivi. Senza gli sviluppatori indipendenti questa tecnologia sarebbe rimasta molto più indietro o forse non avrebbe proprio visto la luce finora.
In questo momento il mercato degli indie è certamente competitivo. Dall’altro lato però si scontra con il problema -non solo italiano ma internazionale- legato agli investimenti nel settore delle idee. Un po’ di tempo fa si diceva che in Italia le idee ci sono ma manca piuttosto la cultura dello sviluppo delle idee. Come startup che si è formata un nugulo di sostenitori già consistente, che ne pensate di questa situazione e come prevedete voi di interfacciarvi a quella che è una problematica economica abbastanza rilevante?
Andrea: La situazione purtroppo la guardiamo con un po’ di amarezza. Questo è il periodo in cui tante idee buone emergono sempre da quelle poche persone che ancora in questo sogno ci credono e ci si buttano. Il problema è che in Italia c’è la concezione che per portare avanti questi propositi e ottenere qualche finanziamento ci deve essere qualcosa di già costruito e preesistente mentre magari la sola intuizione è geniale, ma non viene appoggiata e sostenuta perché non c’è la mentalità del rischio e dell’investimento sull’idea. All’estero questa cosa è un po’ meno marcata, anche se varia da paese a paese.
Michele: Il momento in realtà sarebbe davvero florido per il nostro tipo di idee perché siamo arrivati a una saturazione del mercato dei colossi e si è ampliata la portata dei prodotti indie, visto che ormai c’è chi solo con un computer e la testa ci ha fatto i soldi. Le risorse di sviluppo sono quindi più accessibili oggi, ma si è comunque sempre ostacolati esternamente come appunto dalla politica economica e dalle leggi del luogo. In altri paesi partire con una startup è una cosa che viene affrontata in modo completamente diverso.
Perché allora InvaderGames crede che valga la pena spendere tempo e fatica in questo e in Italia?
Andrea: Perché prima o poi ci riusciremo a raggiungere i nostri obiettivi, di questo siamo convinti, ma potrebbe essere tutto più veloce in altre condizioni, invece dobbiamo cavarcela da soli.
Grazie ragazzi, buona fortuna e alla prossima.