Il nuovo capolavoro di Masaaki Yuasa in anteprima mondiale a Venezia
Presentato in anteprima mondiale nella sezione Orizzonti della 78esima Mostra del Cinema di Venezia, Inu Oh segna un momento di svolta fondamentale nell’evoluzione autoriale di Masaaki Yuasa, nel quale il regista nipponico riflette esplicitamente come mai prima d’ora sul ruolo sociale dell’artista e sulla coerenza del proprio percorso individuale, nel tentativo di proporre una soluzione al dissidio tra tradizione – da cui dipende la durevolezza del lascito, e quindi l’aspirazione all’eternità del creatore – e innovazione – ragion d’essere e propulsore della prassi artistica e performativa.
Siamo nel Giappone medievale, nel periodo noto come Nanboku-chō (1336 – 1392), ovvero «delle due Corti»: l’imperatore Go Daigo della Corte del Sud – di stanza a Yoshino – e il reggente del governo militare Ashikaga Takauji, sostenitore dell’imperatore Kōgon presso la Corte del Nord – sita a Kyōto –, sono alla ricerca dei Tre Tesori Imperiali che garantirebbero la legittimazione formale del proprio potere. Figlio di un rinomato cacciatore di tesori, Tomona – gli presta la voce la stella del cinema e ballerino Mirai Moriyama – recupera dal fondo del mare la spada Kusanagi no Tsurugi, che però ferisce mortalmente il padre e lo priva della vista: da questo tragico evento, ha origine il suo percorso iniziatico come biwa hōshi (monaco suonatore di cetra), che nel giro di qualche anno lo porta fino al cuore della vibrante capitale settentrionale. È qui che fa la conoscenza di Inu Oh – doppiato dal frontman dei Queen Bee Avu-chan –, figlio deforme – e pertanto reietto – di una delle più antiche casate di attori nō di Kyōto: accomunati dalla posizione di emarginati, i due troveranno presto l’intesa per un sodalizio, mettendo in piedi il più grande complesso musicale che la sonnacchiosa nobiltà di corte abbia mai visto.
Regista eclettico e poco propenso all’estetizzazione del repertorio tradizionale del proprio paese d’origine – quanto anche all’auto-orientalismo in senso globale –, Masaaki Yuasa si cimenta qui nell’adattamento animato del romanzo storico Heike monogatari: Inu Oh no maki (2017) scaturito dalla penna di Hideo Furukawa, scrittore visionario – giunto in alcune traduzioni anche in Italia – che nel corso della traduzione in lingua moderna dell’omonimo capolavoro della letteratura medievale era rimasto particolarmente affascinato dalla figura di Inu Oh, maestro di sarugaku – l’arte teatrale progenitrice dei generi nō e kyōgen – vissuto a cavallo tra il XIV e XV sec., offuscato dalla grandezza dei più celebri – nonché più graditi al potere – maestri di danza Kan’ami e Zeami suoi contemporanei.
Di per sé, la scelta di adottare il romanzo di un outsider – riferito alla scena della letteratura nipponica contemporanea – come Furukawa come soggetto originale, il quale a sua volta si propone di ridare dignità letteraria a una figura storica rimasta ingiustamente in ombra, ci dice molto sulla visione che Yuasa deve avere di se stesso: nel mondo dell’animazione, inteso come settore produttivo ancor prima che mezzo d’espressione, egli figura parimenti come un outsider, equamente divisosi – senza snobismi – tra la televisione e il cinema con un’impronta stilistica di rara coerenza, al punto da guadagnarsi un selezionato ma fedelissimo bacino di estimatori la cui funzione è quella di sanzionare ogni nuovo passo della sua produzione.
Come evidenziato anche dal chara design di Taiyō Matsumoto, che di storie di reietti e affini ce ne ha raccontate a volontà, un outsider si configura come tale in virtù dei propri demoni, i quali, al pari degli spiriti vendicativi dei Taira – gli eroi sconfitti dello Heike monogatari, appunto –, ne rappresentano la maledizione come pure la risorsa più preziosa: è proprio dando voce alle memorie dimenticate di questi fantasmi che Inu Oh, nel corso del film, guarisce dalle deformità, acquistando un aspetto tale da entrare nelle grazie dello shōgun Ashikaga.
Quest’ultimo punto ci porta direttamente al secondo nodo della riflessione, ovvero della inesorabile transizione da innovazione a norma in ambito artistico, e del conseguente passaggio dalla forma anticonvenzionale a quella istituzionale: una volta che l’artista abbia dato voce alle sue pulsioni più segrete, cosa resta infatti da mettere in scena? La catarsi derivante dall’espressione pubblica e condivisa della propria interiorità può a lungo andare danneggiare chi crea, nella misura in cui costui cercherà una sempre maggiore stabilità, appoggiandosi alle forme di conoscenza controllate e normate dal potere? Quasi volesse con ciò fare testamento con largo anticipo, Yuasa affida al voltafaccia finale di Inu Oh, ormai bellissimo e impeccabile danzatore di nō presso la corte imperiale, la sua amara constatazione: perché qualcosa duri nel tempo, è necessario che la sua carica rivoluzionaria si perda gradualmente, altrimenti l’oblio è certo – come esemplificato dalla decapitazione di Tomona, rimasto caparbiamente fedele al suo estro sperimentatore.
Un ultimo elemento degno di attenzione, che è poi quello da cui deriva l’impostazione complessiva del film, è la cautela osservata da Yuasa nel maneggiare il folclore, che in Inu Oh assume un significato del tutto diverso rispetto alle produzioni mainstream di ambientazione coeva. Per un paese che ha impostato la sua strategia di soft power sulla riattualizzazione ed ostentazione della propria cultura tradizionale, il confronto con detta tradizione rappresenta spesso un momento di autocelebrazione a tinte scioviniste, in cui l’artefatto culturale – stiamo parlando di anime in questo caso – non appartiene più tanto all’autore come individualità pensante ma alla nazione, che ne garantisce una rappresentazione “autentica” e uniforme come vetrina di abiti, rituali e conoscenze con cui suscitare ammirazione nello spettatore straniero.
Dal canto suo, Yuasa si emancipa sin dal principio da questa nostalgia per un passato idealizzato, impostando il film come un musical a tema J-Rock in tre atti, dove al recitativo del sarugaku e dei suoi epigoni più solenni si sostituiscono i brani originali affidati alla composizione del polistrumentista Yoshihide Ōtomo, sui quali si innestano i testi relativi alla tragica fine dei Taira. Mantenendo intatta l’iconografia del tempo e l’afflato lirico dello Heike monogatari, il regista giunge così a vibrare il suo colpo fatale al conformismo e alla normalizzazione retrospettiva del passato: il medioevo giapponese, cui si guarda oggi con tanta solennità e riverenza, fu in realtà un’epoca di prepotenti innovazioni incentivate dall’instabilità politica e dal diffuso senso di disorientamento morale, popolata di monaci lussuriosi, performer androgini e popolani in cerca di divertimento e trasgressione, proprio come intuito da Inu Oh e dalla sua strana compagnia.
Ancora una volta, Masaaki Yuasa è riuscito a stupirci con la sua capacità di reinventarsi, sia sul piano stilistico – basti pensare alle sequenze che descrivono la realtà esterna dal punto di vista di Tomona, non vedente – che narrativo – il racconto poetico dello Heike che si interseca con il passato dei personaggi originali del film –, producendo uno dei lungometraggi più visionari della sua filmografia. A questo punto, non resta che compatire gli amici otaku in Giappone e altrove nel mondo, i quali dovranno attendere l’estate del prossimo anno per vedere questo capolavoro in sala.