Un viaggio alla scoperta di Jeff Minter, fra psichedelia videoludica e programmazione indipendente
Jeff Minter e la psichedelia hanno un rapporto così stretto e viscerale che quasi potrebbe apparire più forte di quello che lo sviluppatore possiede con i lama o con i cammelli. Una frase che può sembrare abbastanza assurda (non che non lo sia) ma che, proseguendo nella lettura, capirete e accetterete come estremamente plausibile. Se non ovvia.
Quello che vi aspetta, allora, è un viaggio dritti dritti nella storia di Yak, dai primi esperimenti videoludici alle ultime esperienze multisensoriali, senza dimenticarci i cari viaggi lisergici.
Una carriera all’insegna dell’indipendenza
Jeff Minter, noto anche con gli pseudonimi di Yak, Stinky Ox e Jeff Minotaur, è un designer e programmatore di videogiochi nato nel 1962 a Reading, una città del Regno Unito distante una cinquantina di chilometri da Londra.
Come lui stesso ha riferito in più di una occasione, la passione per la programmazione e per i videogiochi è nata quasi per caso: un giorno, infatti, dopo aver aperto la porta di un’aula del college dove studiava si è imbattuto in uno strano fenomeno: un ragazzo intento a smanettare con un Commodore PET. Folgorato da questa inaspettata visione e da quella strana ibridazione uomo-macchina che vedeva compiersi dinnanzi ai suoi occhi, esplose d’entusiasmo nello scoprire che tutto quello che accadeva sullo schermo del Commodore PET poteva compiersi grazie alla “scrittura” di un codice – operata in quel caso proprio da quell’individuo sconosciuto.
Una rivelazione destinata a cambiare per sempre la storia di Minter e il suo rapporto con le macchine elettroniche. Perché, simbolicamente, è in quel giorno che si può affermare che la sua carriera di programmatore ha avuto inizio: Minter si innamora di “quella macchina”, si innamora del codice che prende vita e pianta il seme della creatività che non potrà che fiorire negli anni a venire.
Vedranno così la luce i primi esperimenti per divertire se stesso e la combriccola di amici (gli unici sei nerd presenti in città, come ha precisato in un’intervista), poi le prime vendite condite anche da rapporti lavorativi interrotti per controversie sui diritti d’autore, e infine i primi successi (parliamo di circa una ventina di titoli rilasciati per Sinclair ZX80, ZX81, Commodore VIC-20, Atari ST, ZX Spectrum e Commodore 64) che lo convincono a lasciare gli studi universitari di fisica per dedicarsi totalmente allo sviluppo di videogiochi. Soprattutto risale a quel periodo, nello specifico al 1982, la fondazione della Llamasoft, software house “personale” tuttora in attività.
Il primo gioco sviluppato e pubblicato sotto l’etichetta Llamasoft è Andes Attack (negli USA Aggressor), un clone di Defender in cui troviamo dei piccoli lama che avanzano attaccando il giocatore al posto delle classiche astronavi del titolo originale. L’azione frenetica, la bizzarria generale, l’utilizzo di colori acidi, i palesi richiami di Jeff Minter alla psichedelia, e l’immancabile presenza di animali appartenenti alla famiglia dei camelidi (e/o di quella dei ruminanti), sono alcuni dei tratti ricorrenti che formano la cifra stilistica delle sue opere. Gli stilemi di un autore che, grazie alla follia di questa grammatica allucinat(ori)a, nel corso degli anni ‘80 inizia a farsi conoscere presso il grande pubblico e a inanellare una serie di titoli eccezionali dall’enorme successo. Fra i tantissimi, possiamo citare: Gridrunner, Laser Zone, Mama Llama, Sheep in space, Psychedelia, Metagalactic Llamas Battle at the Edge of Time, Batalyx, Iridis Alpha, Attack of the Mutant Camels (uno dei più celebri in assoluto) e Revenge of the Mutant Camels.
Negli anni ‘90 nasce un forte sodalizio con lo sfortunato Atari Jaguar, tanto da portare Next Generation a definirlo come “lo sviluppatore leader” di quella piattaforma e alla pubblicazione di numerosi titoli inediti affiancati da remake e versioni potenziati di precedenti IP: da Tempest 2000 a Defender 2000, passando per Llamazap.
Dello stesso periodo sono una serie di videogiochi per Pocket PC, come Deflex, Hover Bovver 2: Grand Theft Flymo (una reinterpretazione del primo Hover Bovver) e Gridrunner ++, quest’ultimo uscito anche per PC.
Con l’avvento del nuovo millennio, dopo un periodo di sperimentazioni, qualche fallimento e divagazioni non propriamente videoludiche (ci riferiamo alle esplorazioni con le VLM, le Virtual Light Machine, degli strumenti di audiovisualizzazione che permettono all’utente di interagire in tempo reale e manipolare la generazione grafica), Minter scorge nella piattaforma Xbox Live Arcade uno spazio familiare in grado di ospitare artisti indipendenti provenienti dalla scena underground e dar loro la possibilità di esprimersi liberamente, proprio come succedeva nei primi anni di vita di quella stessa industria. Il primo titolo che decide di rilasciare sulla piattaforma è Space Giraffe, fixed shooter del 2008 che si rifà al vecchio Tempest, del quale recupera il gameplay e quasi tutti i motivi portanti della sua intera produzione: senso di velocità estremo, meccaniche semplici ma stratificate e precisissime, un alto tasso di sfida e quella soddisfazione estetico-estatica tipica della cultura psichedelica.
Significativa, inoltre, la decisione di piazzare il gioco al più basso prezzo possibile, ovvero 4 dollari, dando la possibilità ai giocatori di poter scaricare una demo gratuita: un intelligente modo per dare a chiunque la possibilità di poterlo testare prima di acquistarlo. Seguono, sempre per Live Arcade, GridRunner +++ e Space Invaders Extreme, un remake che non ha bisogno di presentazioni.
Esaurita anche quest’ultima esperienza, Minter è insoddisfatto e frustrato: non ne può più dei ritardi legati all’uscita dei suoi titoli. Quello che vuole è ritornare a uno stile di sviluppo più snello e veloce, a quel paradigma in cui la forbice di tempo che intercorre fra produzione e rilascio di un gioco sia quanto più breve possibile. Da questa presa di coscienza nasce The Minotaur Project, una serie di videogiochi dal gusto retrò in esclusiva per iOS. Una collaborazione che vede Llamasoft rilasciare sette titoli in poco più di un anno (parliamo di: Minotaur Rescue; Minotron: 2112; GoatU; Caverns of Minos, esordio nel genere platform; Gridrunner iOS; Super Ox Wars e GoatUp 2, primo titolo Llamasoft a presentare un editor di livelli).
Ma anche questa è un’esperienza deludente: problematiche strutturali come l’assenza di visibilità, lo scarso turnover nello store e l’asfissiante predominio di free-to-play e cloni, portano Minter e il suo socio Zorzin ad abbandonare lo sviluppo su mobile e a firmare nel 2013 un accordo con Sony Computer Entertainment per la realizzazione di TxK, un tube shooter (un sottogenere degli shoot ‘em up) in esclusiva per Playstation Vita.
TxK è definito dagli stessi sviluppatori come l’erede spirituale di Tempest 2000 e una versione riveduta e “corretta” di Space Giraffe, specialmente per quanto concerne l’accessibilità e il livello di sfida proposto – due degli aspetti maggiormente criticati del titolo per Xbox 360.
A conclusione di questo parziale resoconto della gargantuesca carriera di Minter e della Llamasoft tutta, non possiamo non citare lo splendido Polybius, gioiello tecnico, rilasciato per Playstation 4 nel 2017 e primo sconfinamento minteriano all’interno delle possibilità offerte dalla realtà virtuale grazie all’ampio e sorprendente supporto per il Playstation VR; e Tempest 4000 uscito nel 2018 per Playstation 4, Xbox One e PC, frutto di una storica (e diciamo, rinnovata) partnership fra Atari e Llamasoft.
Jeff Minter e la psichedelia videoludica: alla ricerca del tempo (mai) perduto
«Sono rimasto nel passato, per scelta. E mi piace essere ancora lì»
Finora ci siamo limitati a filtrare la figura di Jeff Minter attravero l’enorme quantità di videogiochi che è stato in grado di creare fino a oggi. Quasi a voler tentare un gioco per accumulo, un tentativo di modellarne le qualità interne traducendo il suo fare in essere. D’altra parte, è pur vero che è impossibile rimanere impassibili di fronte a una mole di tale portata: anche una semplice enumerazione, una superficiale elencazione, ci permette invero di squadrarne il talento, la dedizione e la passione con cui fin da ragazzo si è approcciato a questo medium in un tempo in cui non esistevano distinzioni, né confini, né dibattiti di sorta, a separare lo sviluppatore – il coder – dall’autore. Un passato che, con tutti i relativismi e le occorrenze del caso, non si è mai fatto storia nel caso in questione.
E non si è fatto storia, non è tramontato dunque, proprio perché Jeff Minter rappresenta (e pochi altri con lui), quell’esemplare rarissimo di sviluppatore indipendente che ha perseguito i propri interessi vivendo il presente e i suoi mutamenti (sociali, tecnologici e antropologici che siano) senza mai rinunciare al proprio passato. Come a voler incarnare un paradosso temporale in cui l’individuo persegue e insegue contemporaneamente due dimensioni del proprio tempo: una, all’indietro, in un momento cui il programmatore è l’autore ed è l’unico (con poche e selezionate eccezioni) esecutore del proprio spartito; e l’altra, in un presente-futuro tecnologico attraverso il quale riprodurre quelle visioni, quei pensieri, e quelle quasi idee che si rinnovano continuamente e che sfuggono fra le maglie magiche del codice macchina.
«Io mi occupo di tecnologia che ha uno stile retro. Ma non significa che non guardi al futuro: alcuni dei miei ultimi giochi sono in realtà virtuale. Minotaur Rescue VR o Polybius ad esempio. In fondo è come per la musica. Oggi le grandi produzioni per console sono equiparabili ad una sinfonia suonata da un’orchestra enorme. Ma c’è anche chi sale sul palco con una semplice chitarra. Ecco, io appartengo a quest’ultima categoria.»
Minter sembra un hippie, anzi lo è: non ne nasconde la filiazione e non si preoccupa di presentarsi come tale: un capellone trasandato che assume pose scolpite dalle innumerevoli sessioni di dialogo con le più disparate apparecchiature elettroniche e che tradisce l’indolenza corporea con una parlantina energica, vibrante e mai conclusiva. Un tipo strano, insomma, che aumenta il proprio gradiente di singolarità grazie a una particolarissima ossessione per i quadrupedi come cammelli, yak, lama, pecore, ecc: li troviamo ovunque nelle sue opere e nella sua vita. Sono elementi che contribuiscono a rompere le maglie della seriosa realtà, ribaltandone le confortanti aspettative e aggiungendovi uno strato di sottile ironia che spesso sfocia nell’assurdo e nel surreale (cosa dire di nemici a forma di spinelli e bottiglie di birra che incontriamo in Hallucino-bomblets, ad esempio?).
L’aderenza e la fascinazione di Jeff Minter per psichedelia degli anni ‘60/’70 e il suo universo, unita all’ossessione per i cammelli, si intreccia con la volontà di avvicinarsi quanto più possibile al linguaggio macchina puro e padroneggiare il codice per poter inondare lo schermo di immagini e di suoni senza un accenno di rallentamento. Raggiungere una velocità lisergica, allucinante, mediante pratiche esoteriche da tecnosciamano: possedere lingue sconosciute che diffuse in corpi di silicio e metallo diventano materia virtuale sì, ma anche vivente e cangiante. Sfruttare o aspettare bug imprevisti per esplorare l’ignoto o lasciarsi trasportare dal virtuosismo per fare dell’improvvisazione uno strumento creativo attraverso cui seguire l’ispirazione del momento (come nel videogioco-esperimento, Iridis Alpha, in cui Minter decise di programmare improvvisando, riga di codice dopo riga di codice, senza nessuna idea pre-costituita o storyboard da seguire).
«Io non racconto una trama, tento di trasportare il giocatore in uno stato emotivo. Sono astrazioni nelle quali si entra. Non parto mai da un’idea intesa come qualcosa che possa esser messo nero su bianco. Comincio e non ho bene idea di dove il lavoro condurrà. Ai vecchi tempi quando i videogame presero a diffondersi con gli home computers, avevano questa capacità di rallentare il mondo circostante mentre ci si addentrava al loro interno. Tutto il mio lavoro è cercare di costruire esperienze del genere. Qualcuno potrebbe definirle una specie di droga digitale e forse in qualche modo lo sono. Ma sicura, non ha alcun effetto collaterale ed è accessibile a tutti.»
Anche il suo interessamento per la realizzazione del software Virtual Light Machine (senza dimenticare le successive versioni, o il progetto Unity mai andato in porto ma rinato in qualche modo attraverso il player NEON installato su Xbox 360) è figlio dell’amore di Jeff Minter per tutto ciò che è psichedelia: cos’altro potrebbe spiegare un generatore di luci che ha come scopo quello di sposare alchemicamente immagini acide e lisergiche che si cambiano in base alla base musicale riprodotta in quel preciso istante? Niente, se non la volontà di realizzare universi colorati che, attraverso i nostri occhi e le nostre orecchie, entrano dentro di noi cambiandoci per sempre.
«Era da un bel po’ ormai che mi occupavo di psichedelia videoludica e forse era arrivato il momento ed il mezzo giusto per provare a realizzare un gioco in cui replicare non tanto il gameplay, ma almeno gli effetti di quella vecchia leggenda. Tralasciando tutti gli aspetti negativi naturalmente.»
Ed è proprio qui, in questo istante fissato sul bianco di questo schermo, che Jeff Minter entra in contatto con quello che viene definito Rinascimento Psichedelico, cioè in una fase di questo periodo storico in cui le sostanze psichedeliche, attraverso il contributo di numerose ricerche scientifiche (ma senza dimenticare le sotterranee battaglie contro-culturali di resistenza e sopravvivenza), si trovano di nuovo a occupare quegli spazi da cui erano state estromesse: riscattate dopo decenni da un proibizionismo miope e criminoso, assumono oggi un ruolo di primo piano nel campo medico-terapeutico laddove altri strumenti stanno fallendo/hanno fallito. E nelle parole che Jeff Minter ha condiviso sul Playstation Blog per la campagna marketing di Polybius di cui abbiamo condiviso qualche riga, scorgiamo tracce di psichedelia che si inverano nella volontà di indurre, di risvegliare, nel videogiocatore lo stato di “coscienza del flusso” e la conseguente completa immersione nel magma digitale per approdare a una trasformazione assimilabile, in potenza almeno, all’assunzione di un composto psicoattivo: un mutamento interiore di cui possono sfuggire i dettagli ma non le impressioni concrete più ampie. Il quale, dopo averci attraversato, lascia delle tracce al nostro interno e ci modifica irrimediabilmente donandoci non nuovi pensieri ma nuovi metodi per ri-pensare gli stessi pensieri che ci abitavano in precedenza.
Un modo, in conclusione, per avvicinare due esperienze oniriche e cerebrali insieme nell’esaltazione della gioia dell’estasi, della sorpresa e del divertimento. Della cura che l’intrattenimento creativo può riservare alle nostre persone, senza farsi materiale esclusivo o impoverimento che esclude alcun divertissement.
Perché in fin dei conti, «scrivere codice, sviluppare un software, è una cosa molto personale» e se Jeff Minter lo fa con psichedelia in mente, è una vittoria per tutti. Non solo per lui.