Dopo Thomas Was Alone e Subsurface Circular, Bithell cambia nuovamente genere con cui mettere alla prova le sue doti di game designer. Puzzle a turni e prodotto su licenza saranno una sfida raggiunta in John Wick: Hex?
Trasportare in pixel e codice un brand cinematografico come quello di John Wick, sulla carta sembra un compito abbastanza semplice. L’azione schematica, la narrazione strutturata su livelli – con boss della malavita sempre più potenti e pericolosi – e le coreografie ritmate in modo tale che sembrino quasi una programmazione certamente danno da pensare che una saga come questa possa tradursi in modo perfetto nel videogioco. Questo perché proprio con esso condivide punti linguistici in comune e che spesso anzi portano alla frase – per il sottoscritto errata e a sproposito – “questo film pare un gioco”.
Certo è che se pensassimo ad un genere in cui posizionare un adattamento della serie con protagonista Keanu Reeves non penseremmo mai ad un puzzle game a turni. Come può una struttura statica basata sulla pianificazione, unirsi con l’adrenalina delle azioni rapide dei lungometraggi? A questa domanda ha voluto rispondere Mike Bithell, insieme ad un nutrito team, con il suo John Wick: Hex.
Narrativamente pensato per restituire la stessa sensazione dei film dedicati al personaggio, John Wick: Hex si presenta come un capitolo interamente nuovo nella storia. Personaggi e setting sono anche qui dei contesti e dei pretesti per permettere la nascita di un’azione, vero fulcro e punto di forza di quel che riguarda il nostro caro killer. Tutto è un diversivo per fare in modo che ci sia il giusto ambiente, insomma. Ambiente dedito alla spettacolarizzazione che, però, fa scontrare immediatamente chi gioca con quella che sulla carta pare una gigantesca stortura rispetto a quello che ci si potrebbe immaginare adatto al personaggio: come già detto, il gioco è di fatto un puzzle game all’interno del quale è il tempo il cardine entro cui orientare l’azione, le strategie e le tattiche.
C’è tempo, in questo mare infinito di gente (morta)
Anche senza avere delle particolari nozioni di teoria della narrazione la differenza tra tempo della storia e tempo del racconto è evidente e chiara più o meno a tutti. Il confine tra quello che viene raccontato e quello che succede ma viene omesso con ellissi e salti in avanti e indietro nel tempo, è cosa comune nelle storie da quando esse esistono. In John Wick: Hex questo concetto viene esasperato legandolo a doppio filo con un altro: quello di tempo di reazione e di pianificazione. Nel gioco, infatti, ciò che accade su schermo e su cui chi gioca interviene è un’estensione di quello che realmente i personaggi svolgono, arricchito di pause utili a calcolare la mossa perfetta sia nel breve che nel lungo termine.
Ogni azione che John Wick e i suoi avversari compiono è tradotto minuziosamente in unità di tempo necessarie sia per svolgerla che per reagire a ciò che gli altri fanno. Tutto scorre inesorabile sul bordo alto dello schermo, dove una linea temporale preannuncia con quali tempistiche tutti arriveranno al compimento di ciò che si sono prefissati stabilendo una sorta di ordine di turno.
A chi gioca spetta quindi il compito di decifrare un rompicapo specifico per ogni livello, le cui informazioni sono più o meno palesi (limitate al raggio visivo di John). Un approccio scacchistico e basato sulla programmazione e le tempistiche viene quindi usato per raccontare una delle vicende cinematografiche più rapide e dal cardiopalma del contemporaneo, creando una discrepanza che sulle prime disorienta ma che sul lungo periodo affascina e fa riflettere circa il valore del tempo da un punto di vista strettamente economico. Un puzzle con una struttura che si avvicina a quella a turni che pesca a piene mani – a livello stilistico più che meccanico – da grandissimi nomi dell’indie come Super Hot e Hotline Miami: il primo per le riflessioni sul tempo (che in John Wick: Hex non sono così filosofiche, ma non ce n’è il bisogno), il secondo per le scariche di adrenalina e per l’impostazione visiva. Il tempo è moneta di scambio tra giocatore o giocatrice e gioco, in una negoziazione aperta all’interno del quale è necessario tenere conto della durata delle proprie scelte.
I livelli, nel tempo vero e proprio di John Wick: Hex, non durano quanto dura giocarli ed è lì che sboccia tutta l’azione, dove i pugni e le pistolettate si coordinano in una danza. La vera essenza della serie cinematografica viene relegata ai replay che riassumono senza pause ciò che chi ha giocato ha scelto di fare, rivestendo tutto il resto di una seconda adrenalina differente nel sapore ma molto simile negli intenti. Si mette in pausa la frenesia per renderla ancora più assillante, si dà respiro dai colpi subiti per farli sentire ancora più pesanti. In questo modo Mike Bithell e i suoi collaboratori del Lionsgate Studios hanno trovato un equilibrio per farsi che non fosse necessario banalizzare le meccaniche riducendole a quelle più classiche di un titolo d’azione senza mai rinunciare a restituire sensazioni che siano comunque collegabili a quelle del brand d’origine.
Da un punto di vista strettamente estetico, John Wick: Hex, trasmette una grande spinta nei confronti dell’eleganza. I colori e le ombre sono piattissimi e senza sfumature, i modelli poligonali si avvicinano moltissimo alla scuola low-poly e HUD e testi sono geometrici e senza grandi fronzoli. Una scelta stilistica forte, che però ben si integra con il contesto. Si è voluto dare spazio ad un gusto particolare piuttosto che rivestire il tutto di un’estetica già vista premendo l’acceleratore verso una personalizzazione più pungente. L’effetto è certamente piacevole, ma forse un po’ di rifinitura in più avrebbe reso tutta questa ispirazione ancor più evidente ed efficace.
Diventare Baba Yaga
Per concludere posso dire che John Wick: Hex è un esperimento di prodotto su licenza sulla carta impossibile decisamente riuscito. Il passaggio per divenire la strega della mitologia è compiuto ma non è esente da imprecisioni e da errori dovuti ad un’eccessivo zelo, oltre che da una minima quantità di ingenuità meccaniche e di resa a schermo che rendono forse troppo legnosi certi momenti che invece dovrebbero essere decisamente concitati. Mike Bithell, però, può considerare questa scommessa sperimentale vinta e annoverare un’altra piccola stelletta alla sua personalissima bacheca dei trofei.