Judas and the Black Messiah: il film di Shaka King, tra polemiche sugli Oscar e la potenza del messaggio
A otto anni dal suo primo lungometraggio (Newlyweeds), Shaka King entra di fatto nello star system con il suo nuovo film Judas and the Black Messiah, che già lo consacra nell’Olimpo grazie a due Oscar e sei candidature totali, oltre a un Golden Globe.
Di premi e riconoscimenti parleremo più avanti, ma intanto è interessante notare che la nuova fatica di King – distribuita in Italia direttamente in streaming sulle piattaforme digitali a partire dal 9 aprile 2021 – permette al personaggio di Fred Hampton di entrare alle cerimonia degli Oscar con ben due film (è presente anche ne Il processo ai Chicago 7, n.d.R.).
Una curiosità interessante, ma non esattamente frutto di un mero caso, quanto di una attenzione finalmente riposta su determinate tematiche, fino a pochi anni fa quasi inascoltate e poco approfondite dall’industria cinematografica hollywoodiana e che la nuova ondata di black power e le nuove generazioni di registi (e non solo) sta portando alla luce.
Judas and the Black Messiah racconta infatti la storia del sovracitato Fred Hampton, giovane attivista americano nella fine degli anni ’60, leader dei Black Panthers (Pantere nere), che fondò la Rainbow Coalition, un’importante organizzazione politica multiculturale che inizialmente comprendeva – appunto – le Pantere Nere, ma anche gli Young Patriots, gli Young Lords oltre a stringere un’alleanza con le principali street gang di Chicago, con lo scopo di ottenere un cambiamento sociale e politico della società statunitense.
Non la pensavano così ovviamente le istituzioni e in primo luogo l’FBI che considerò da subito Hampton come una una grave minaccia al sistema, cercando in ogni modo e con ogni mezzo di fermare la sua azione.
Tra questi mezzi c’è anche e soprattutto il Judas, William O’Neal (qui interpretato da Lakeith Stanfield), arrestato per essersi spacciato come agente dell’FBI e utilizzato poi dal Bureau come infiltrato nella banda del black Messiah Hampton (Daniel Kaluuya).
È proprio il personaggio di O’Neal lo strumento più interessante di tutto il film, laddove strumento è necessariamente il termine da utilizzare nell’accezione più materiale possibile, che ci fa assistere alle reticenze e ai dubbi dell’uomo, ai suoi crucci e ai malcelati sensi di colpa che sfoceranno poi in una tragica fine. Di fronte alla prospettiva di diversi anni di galera, O’Neal “sceglie” di diventare informatore, supportato dall’agente Roy Mitchell, interpretato da un Jesse Plemons sempre impeccabile e tra i migliori nel ruolo del doppiogiochista. Sembra quasi una spalla e un porto sicuro per O’Neal, ma quando deve usare il bastone non si fa scrupoli, temendo a sua volta quel noto J. Edgar Hoover – che in Judas and the Black Messiah è impersonato da un irriconoscibile Martin Sheen – nel pieno rispetto di una scala gerarchica che parte sempre dal concetto per il quale “Un distintivo fa più paura di una pistola”, come sostiene O’Neal nel primo colloquio con Mitchell.
“O questo ragazzo merita un Oscar o crede a questa m***a”.
È in primo luogo per questo che l’uomo sceglie di imboccare quella strada, e l’interpretazione di Stanflield è sublime, straordinaria nell’evoluzione del personaggio e nei tormenti, nei suoi sbalzi di umore, in uno schema ideale che gli fa sembrare di raggirare tutti, dai fratelli all’FBI, quando l’unico ad esser plagiato e autore di una vita menzognera è proprio egli stesso.
Non è ancora del tutto chiaro, tornando alla realtà dei fatti di cui si nutre Judas and the Black Messiah, quanto O’Neal fosse complice dell’uno o dell’altro schieramento, poiché sebbene è sembrata evidente la sua ammirazione per Hampton, provava un simile sentimento nei confronti di Mitchell e un (poco) mascherato desiderio di far parte dell’FBI e del sistema.
Una personalità complessa e quasi schizofrenica interpretata magistralmente, come detto, da Lakeith Stanfield, ed è proprio qui che si apre il dibattito relativo agli Oscar. Un dibattitto nel dibattito, in realtà, perché in primo luogo si è discusso molto circa la candidatura di Daniel Kaluuya come best supporting actor, quando in realtà Hampton è per certi versi il reale protagonista, ma è proprio questa scelta che probabilmente gli ha garantito un Oscar che, altresì, difficilmente avrebbe potuto accarezzare nell’impari confronto con Hopkins.
Ma qui si apre un’altra discussione, poiché nella stessa categoria di attore non protagonista, in cui Kaluuya ha trionfato, era nominato anche Stanfield e probabilmente avrebbe meritato il premio più del collega.
Non tutti ovviamente saranno d’accordo con questa affermazione, ed è fuori discussione che i discorsi dell’Hampton di Kaluuya trasmettano il carisma che ha reso celebre il giovane attivista americano, ma è altrettanto vero che l’evoluzione del personaggio di O’Neal, volubile, incostante, imprevedibile abbia un qualcosa di unico, che giocoforza Hampton non può vantare.
Come afferma anche Mitchell dopo aver visto O’Neal in una delle riunioni dei Panthers: “O questo ragazzo merita un Oscar o crede a questa m***a”.
Detto ciò, l’Academy ha fatto le sue scelte e ribadiamo che la performance di Kaluuya si dimostra comunque solida e prorompente, nel pieno rispetto di un personaggio determinato e carismatico come Hampton, in grado di conquistare tutti.
Se i personaggi rappresentano uno dei punti di forza del film, trainando l’attenzione del pubblico, il contesto in cui agiscono è più debole pur nella forza straripante delle motivazioni e nel merito di portare alla luce quelle storie che, come detto in apertura, il cinema non sempre si è preso la briga di narrare. Eppure bisogna ammettere che al contempo, recentissimamente, il suddetto contesto è diventato quasi abusato nelle varie forme che ci hanno regalato soltanto nell’ultimo anno film come Da 5 Bloods di Spike Lee e One night in Miami di Regina King, con il primo che parte dalla guerra del Vietnam per arrivare a una critica dell’America attuale (a 360° gradi, pungendo anche il cinema), e One night in Miami che, in una struttura totalmente diversa, ha una narrazione che si ricongiunge allo stesso periodo di Judas and the black Messiah.
Il film di Shaka King agisce diversamente, con un’impronta molto più politica e di impatto dei precedenti citati e di quelli non menzionati, per un’opera che fugge da virtuosismi badando al sodo, inserendo persino materiale d’archivio in una forma lievemente metacinematografica, sebbene meno di quanto abbia fatto Spike Lee con le sue ultime fatiche, soprattutto Da 5 Bloods.
La cura e la perizia tuttavia non mancano, sia nella ultracitata scrittura dei personaggi che negli aspetti tecnici che ci fanno immergere perfettamente nel contesto dell’America di fine anni ’60, dalla sublime fotografia di Sean Bobbitt – alla prima nomination agli Oscar dopo esser stato colpevolmente ignorato per anni pur a fronte di grandi lavori – alle scenografie di Sam Lisenco, fino ai costumi di Charlese Antoinette Jones.
Alla fine, come detto, Judas and the black Messiah si porta a casa ben due premi, attore protagonista e miglior canzone (anche qui giù di polemiche, soprattutto in Italia), che per un film di un regista semi-esordiente non è affatto cosa da poco.