Jurassic World – Il dominio non ha davvero nulla da dire, non ha una voce e non ragiona neppure per un istante sulle implicazioni del proprio mondo narrativo
o ricordo di un inizio estate. I calori di un primo pomeriggio degli ultimi giorni di un giugno che volge al termine, la quarta elementare (la quarta?) è archiviata e i miei genitori mi concedono un po’ di TV dopo pranzo. Nessuna particolare pretesa di trovare risposte nell’assonnato zapping che sto facendo. Senonché, del tutto insperato, da qualche parte spunta fuori Alla ricerca della Valle Incantata. Conosco già le avventure di Piedino e per questa ragione mi affido ancora una volta al suo racconto.
Me lo godo, finisce e in maniera ancora più insperata subito dopo parte il sequel. Corro dai miei per esternare un’incontenibile euforia per il dono di quella programmazione televisiva così miracolosa. Poi finisce anche questo, e di fila parte il terzo e poi addirittura il quarto. E poi mi fermo per andare a fare altro, contento così, anche se in quel curioso pomeriggio la programmazione pare tutta dedicata alla numerosissima sfilza di sequel di cui il caro Piedino è protagonista. Sequel che non hanno dietro le spalle lo stesso nome che invece ha il primo film, quello della Amblin Entertainment di Steven Spielberg (in produzione assieme a Don Bluth e George Lucas). È il 1988 e cinque anni più tardi sempre la Amblin figura nei titoli di testa di un nuovo mito fondativo a base di rettili colossali, con quel Jurassic Park di un 1993 che è anno spartiacque nella carriera di un regista che arriva nei cinema anche con Schindler’s List.
Sono passati quasi trent’anni da allora e la Amblin Entertainment la troviamo ancora nei titoli, a seguito della Universal, in occasione di Jurassic World – Il dominio, ultimo capitolo di una trilogia sequel apparsa affaticata sin dal primo momento. Ma non c’è più nessuna Valle incantata da raggiungere, e l’unica disperata ricerca è quella dietro a un’identità mai trovata.
Sarà forse per questo che il nuovo film diretto da Colin Trevorrow (in sceneggiatura al fianco di Emily Carmichael) inizia rincorrendo dinosauri oramai allo stato brado dopo gli eventi della precedente pellicola in un’aspra Sierra Nevada alla quale si affiancano poi rapidamente anche il Texas e lo Utah. Scampoli di deserti e di una frontiera americana che richiama con la rapidità di un fuoco di paglia quella wilderness tutta statunitense da domare, contenere, circoscrivere magari in sella a un cavallo così proprio come troviamo l’Owen Grady di Chris Pratt, che di questa trilogia è sempre stato il cortocircuito, significante conservatore e anti-ecologista per eccellenza (lui che scappa in moto sfugge alle fauci di un affamato dinosauro che invece si ciba senza problemi di un poveraccio in monopattino elettrico).
Ma sono attimi, sprazzi fugaci che dettano la prima traiettoria di un paradigma che tasta tutte le possibili opportunità per collocare questo oggetto giurassico nelle discussioni e nella sfera audiovisiva dell’oggi. E così non è affatto un incipit che apre a un reale ragionamento sulla condivisione degli spazi intra-cinematografici di queste creature fatte di materia digitale che si appropriano di una dimensione storica o geografica dentro e fuori dallo schermo, ma solo una pallida contaminazione da usare come iniziale pretesto.
Poi Jurassic World – Il dominio scarta e insegue altre luccicanti esche, e lo fa per tutta una buona prima ora dove prova a mescolare il dinamismo in giro per il mondo proprio dello spy-movie alla posticcia frenesia degli inseguimenti degni di un qualsiasi e genericissimo Fast & Furious. Depositato sul fondo ci sono infatti da sgominare i piani di un losco CEO dal sorriso sornione (Campbell Scott, nella oramai classica miscela che prende un po’ da Tim Cook, Mark Zuckerberg e Steve Jobs) dove anche lì l’elemento giurassico è puramente accessorio, sfruttato pigramente per tirare sul banco il tema della manipolazione genetica come strumento di controllo sulla fame e sul mondo.
Non c’è davvero nulla in questo film che brilli di luce propria. Non che lo facessero nemmeno i precedenti due, sia chiaro, persi a metà tra il goloso guardare ai fasti del passato e l’alquanto incauto tentativo di rinchiudere l’intrattenimento con dinosauri all’interno di quattro mura. C’è però perlomeno da ammettere che il primo Jurassic World entrava un minimo in dialogo con l’eredità di Jurassic Park, ne esplorava le contraddizioni e le pulsioni della spettacolarità mettendole a rapporto con le esigenze dello showbusiness contemporaneo.
Ma qui ci si spinge oltre con l’ago di una bussola completamente impazzito e che non sa più a quale Nord puntare, che piglia un po’ qui e un po’ lì nel disperato tentativo di nascondere con cacofonici effetti “wow” la polvere sotto al tappeto, non consapevole che la Spielberg-face è ben altra cosa. Dopotutto non è originale nemmeno in questo, seguendo le maldestre orme de L’ascesa di Skywalker e rifugiandosi nella seconda porzione di film nel grembo del ben noto simulando (ancora!) un letale parco e spremendo sulla superficie dello schermo il ritorno del trio Sam Neill – Laura Dern – Jeff Goldblum al quale assegnare minutaggio da spartire con i volti già noti (Bryce Dallas Howard, Isabella Sermon).
Del dominio di cui parla il titolo non sappiamo davvero nulla, se non per i rapidi cenni che ne fa il triste espediente di un servizio giornalistico in apertura e chiusura del film. Del mondo chiamato a fronteggiare le sfide di una convivenza forzata con il frutto dei propri peccati non si è interessati a discuterne se non come orpello tra una sparatoria e l’altra. Jurassic World – Il dominio non ha davvero nulla da dire, non ha una voce e non ragiona neppure per un istante sulle implicazioni del proprio mondo narrativo, questo sì peccato originale nell’epoca dei franchise che sono, e devono farsi, riflessi e rifrazioni di quello che ci circonda. Allora forse è meglio tornare da Piedino, alla sua Valle e a quel genuino incanto senza fracasso.