Se avete voglia di vedere una rom-com, non guardate Just Say Yes su Netflix, bensì tutte quelle che malamente imita
Just Say Yes sembra la prova che in Olanda non esistono le commedie romantiche. Che non sono mai state fatte, che non se ne conoscano gli stilemi, le dinamiche e la maniera in cui poterle gestire, mandando all’aria un intero compartimento spesso predefinito eppure ogni volta accattivante, così da poterlo trasporre poi in racconto cinematografico.
Non che questo impedisca al film di Appie Boudellah e Aram van de Rest di poter rubare da un bacino internazionale che si è nutrito di qualsiasi tipo di rom-com esistente sulla Terra, dalle più tradizionali a quelle mainstream, da quelle che esplorano il rapporto tra sessi a quelle che divagano in questioni personali e familiari.
Opere che possono ripetersi nelle costruzioni, che non sempre riescono a scrollarsi di dosso degli stilemi che rischiano di renderle similari a tante altre, ma che comunque cercano di farsi riconoscere grazie una propria ricercata unicità, che potrebbe anche non riuscire ad essere espressa al suo meglio, ma dimostra uno sforzo visibile e un tentativo apprezzabile.
Sono ben otto le mani che cercano di plasmare la coerenza e la scrittura della sceneggiatura indisposta di Just Say Yes: il regista Appie Boudellah si fa affiancare da Mustapha Boudellah, Marie Kiebert e Maarten van den Broek eppure nessuno dei quattro sembra prendere atto dell’ammasso di insensatezze che stanno andando incastrando. Senza nessuna vergogna nell’andare a prendere da terzi per l’assemblaggio della propria storia.
Perché la citazione è concessa, la presa di ispirazione pure. Ma copiare abbondantemente da una sequela di rom-com per lo più americane aggrava ancor più la fattura e l’onestà, del tutto assente, della pellicola olandese, che viene rilasciata così indisturbatamente su Netflix. Apparentemente innocua eppure in realtà colpevole di non aver avuto il coraggio di sbagliare, facendolo però per proprio conto.
Bridget Jones l’ha già fatto. E non solo lei
Il film vede infatti protagonista la trentatreenne Lotte (Yolanthe Sneijder-Cabau), alla produzione di un canale televisivo in cui lavora assieme al suo fidanzato presentatore Alex (Juvat Westendorp), spocchioso e superficiale per cui già ci chiediamo come possano i due poter trascorrere la loro vita insieme. Ma l’amore è amore, o almeno è così che la vuole porre la pellicola stessa, senza andare ad approfondire un rapporto di partenza disfunzionale, il quale verrà aggiustato dalla rottura dei due avvenuta in diretta nazionale.
Dopo averle chiesto inizialmente di sposarlo, lei che finalmente poteva concretizzare i suoi sogni nuziali, Lotte viene lasciata senza anche qui particolari motivazioni dovendo noi pubblico accettare gli umori e la prevedibilità di un evento a cui si rimane, francamente, indifferenti. È da quel momento che la donna, diventata un fenomeno virale dopo essere stata la zimbella del web, si improvvisa presentatrice senza arte, né parte, ma di successo solamente perché goffa e sbadata, pronta a cadere dalla moto e a vestirsi da pollo per far ridere la gente.
Se già il sentore de Il diario di Bridget Jones è molto forte solamente per questo piccolo frangente di storia, il quale dovrebbe essere portante eppure si manifesta al contrario posticcio e sbrindellato, è l’aggiunta di operazioni come Hitch – Lui sì che le capisce le donne, Crazy, Stupid, Love e La dura verità, totalmente miscelate, a creare i presupposti di una sostitutiva storia d’amore che vede Lotte entrare sempre più in sintonia con il collega “mi stai antipatico nei primi cinque minuti di film” Chris (Jim Bakkum).
È l’uomo, nuovo arrivato del network televisivo, che trasformerà la donna da brutto anatroccolo nella bomba sexy che si cela sotto, solamente ad un paio d’occhiali e a una maglia con i cavalli. Personaggio con cui la protagonista instaurerà un rapporto totalmente vacuo basato solo su terzo del film e che vede il pubblico dover credere a quel legame profondo che non si sa quando i due hanno messo in piedi.
Scrivere è riscrivere, ma così è troppo
Una minima parte visto che Just Say Yes potrebbe in realtà, se solo avesse le idee un po’ più chiare, essere un film incentrato su un’unione come quella tra le due sorelle Lotte e Estelle (Noortje Herlaar), soprattutto se anche questa non fosse una (brutta) copia carbone di commedie come 27 volte in bianco e Bride Wars – La mia miglior nemica. Un insofferente battibecco continuo che mostra le innumerevoli differenze tra una sorella più timida e sottomessa, contro l’esuberanza, l’arroganza e la superficialità dell’altra.
Entrambe insopportabili in questa danza delle idiosincrasie sviluppate nel corso del loro rapporto, per nulla autentico in virtù delle imitazioni mal duplicate prese da altre opere, anche questo troncato a spezzoni per un film che non riesce a incastrare omogeneamente tutti i suoi personaggi, le linee che vuole far intraprendere a ognuno di loro e le conseguenze a cui queste portano.
Se scrivere è, da sempre, ri-scrivere, soprattutto quando si vanno riprendendo archetipi tradizionali del genere di riferimento, Just Say Yes non solo pecca poiché riproduce a caratteri cubitali quello che ha visto da una schiera ampissima di altre commedie romantiche, ma perché va imitandole cucendole assieme senza un filo logico e dimostrandosi indietro almeno di quindi anni su quello che significa sceneggiare e dirigere una rom-com.
Una visione sfibrante quella del film di Appie Boudellah e Aram van de Rest, talmente priva di ritmo da dilatare la percezione del tempo dello spettatore, aumentando il senso di irritabilità che mette addosso. Ed è così che il pubblico vorrebbe reagire come fa la protagonista quando immagina cosa potrebbe fare se avesse solo un po’ più di coraggio, magari urlando contro il suo capo all’ennesima battuta indiscreta o strappando i capelli platinati della sorella. Una reazione del tutto normale. Anche questa poi ripresa da una serie tv cult come Ally McBeal.