Morte per troppo lavoro sul manga: la vita di Kentaro Miura come denuncia del Karoshi?
Karoshi è un termine che a qualche lettore sarà senza dubbio familiare, ma che altri faticheranno ad associare al nome di Kentaro Miura, alla sua morte e alla tradizione del manga. Con questa parola si indica letteralmente un decesso per superlavoro. Una condizione clinica causata dal forte stress e dalla fatica accumulata per essere andati ben oltre i doveri del proprio impiego. Può apparire difficile credere che un simile concetto si applichi a qualcosa come il fumetto. Eppure, proprio il manga serializzato, è forse la dimostrazione di una delle più spaventose forme di superlavoro presenti in Giappone.
Creare un’opera letta da milioni di persone nel Sol Levante e nel mondo è qualcosa che richiede sacrifici. In primo luogo dal punto di vista personale, chiedendo agli autori di rinunciare alle proprie famiglie e al proprio tempo libero per donare ai propri lettori quei minuti di spensieratezza settimanale sulle pagine di riviste come Weekly Shōnen Jump o Young Animal.
Altre volte il sacrificio richiesto è ben peggiore. E il caso di Kentaro Miura sembra esserne una testimonianza. A rileggere le sue parole oggi, a quasi un mese dalla sua morte e a poche settimane dall’annuncio della stessa, molti di noi potrebbero essere scossi dai brividi. Sorge perciò spontanea una domanda: Kentaro Miura è morto a causa di Berserk?
Può apparire provocatorio, ma non banale, porre una simile questione. Ma, per il momento, è bene lasciarla lì. Sullo sfondo. Un piccolo tarlo che ci roderà la mente mentre cerchiamo di capire cosa significhi karoshi e come la morte per superlavoro possa applicarsi al mondo dei manga e alla sorte di Kentaro Miura.
Lavoro e morte: un binomio antico
L’idea che il lavoro possa essere causa di morte non è un concetto così estraneo a noi occidentali. Quante volte abbiamo letto di incidenti sul posto di lavoro? Una tendenza che potrebbe essere antica quanto il mondo, sin dalle prime forme di civiltà. Al lavoro, al mezzo con cui si sostiene la vita, da sempre si accompagna qualche rischio di incidenti e di morte. In teoria il progresso ci ha consegnato scenari dove le morti in fabbrica si sono fatte via via più rare, ma proprio per questo impossibili da accettare in una società dove la vita umana assume nuovo valore.
Con l’espandersi della civiltà dei consumi il lavoro è divenuto tuttavia qualcosa in più di un semplice mezzo di sostentamento. Lavorare diventa quasi un’azione fine a se stessa, andando a creare un circolo vizioso in cui lavoro e vita si sovrappongono, fino a far scomparire del tutto la seconda. Eccellere nel proprio impiego diviene l’unico obiettivo. Poco importa che per raggiungere questo scopo si debba compiere un sacrificio personale, quello dell’unica risorsa davvero limitata dell’essere umano: il tempo.
Detta così potremmo pensare alla figura del manager rampante degli anni Ottanta, che sacrifica tutto ciò che ha per rimanere al vertice. O, ancora, al lavoratore desideroso di fare carriera, di elevare il proprio status sociale e quello della propria famiglia. Questo tipo di fenomeno non ha una precisa collocazione geografica. Ovunque nel mondo il ritmo forsennato della produzione richiede maggiori sacrifici, più ore di lavoro, più straordinari, meno riposo.
Morire di troppo lavoro: lo spettro del Karoshi
Se è vero che la morte da superlavoro non ha una bandiera o una collocazione geografica, è altrettanto vero che il Giappone è uno degli stati ad avvertire maggiormente il peso di questa piaga, tanto da coniare una parola per indicarla. Ma come mai, proprio nella terra del Sol Levante, si è coniato il termine Karoshi?
I motivi sono da ricercare nella storia recente del paese. La fine della seconda guerra mondiale, lo abbiamo detto in diversi articoli, ha portato il Giappone a vivere alcune situazioni che, per la mentalità di un popolo orgoglioso come quello nipponico, apparivano inconcepibili. Da un lato la demilitarizzazione voluta dagli Alleati, conseguenza inevitabile per un popolo sconfitto ma che, per uno stato con una forte tradizione militare, deve essere stata una dura prova. Dall’altro i disastri della guerra. La povertà, il grande numero di orfani, le distruzioni. Non solo case e monumenti storici, ma anche le industrie erano state spazzate via.
Il Giappone si trovò così, all’indomani dell’armistizio firmato il 2 Settembre 1945, a dover ripartire da zero. Eppure l’orgoglio del popolo del Sol Levante prevalse. Dopo i primi anni di dure sanzioni gli Stati Uniti videro nel Giappone un potente alleato contro il pericolo sovietico. Aiutarono finanziariamente il paese, permettendo la ricostruzione degli zaibatsu e portando il paese, nell’arco di un ventennio, a una crescita economica vertiginosa.
La ripresa, tuttavia, non riguardò tutte le fasce della popolazione. Nel disperato tentativo di ripartire molti rimasero indietro. Proprio di queste persone, poste ai margini della società, si sono occupati alcuni grandi mangaka come Ikki Kajiwara, che raccontarono le difficoltà del proletariato giapponese del dopoguerra. Una società in cui la corsa al benessere non si fece scrupoli a tagliare i rami secchi. E proprio questa crudeltà, questo timore di finire tra i reietti, deve aver spinto sempre più persone a sacrificare tutto pur di non cadere nell’incubo di una “retrocessione sociale”.
Il primo caso documentato di morte da superlavoro fu nel 1969 ed è riportato da Katsuo Nishiyama e Jeffrey V. Johnson nell’articolo “Karoshi – Death from overwork“. Si trattò di un impiegato di una ditta di spedizioni, un uomo di ventinove anni con una moglie, morto a causa delle troppe ore di straordinario. Non si conosce il nome di questa prima vittima documentata, ma è facile immaginare questo giovane che, preoccupato per i suoi cari e il suo futuro, decise di sacrificare ore di sonno, cibo, svago e vita familiare.
Da allora anche altri casi sono stati documentati. Uno dei più clamorosi fu quello di una reporter di trentuno anni, Miwa Sado, morta per insufficienza cardiaca dopo aver lavorato per oltre 139 ore di straordinario in un solo mese. A questo si unisce anche un altro tipo di morte: quella del suicidio per l’eccessivo stress lavorativo. Anche per questo da oltre tren’tanni in Giappone sono attive linee telefoniche e provvedimenti statali per impedire la diffusione di questo genere di fenomeni.
La morte da superlavoro può quindi colpire davvero chiunque. Anche i colletti bianchi sono esposti al karoshi. Anche categorie insospettabili. Di fronte a questa domanda dobbiamo chiederci: un autore di manga può essere un soggetto a rischio di karoshi?
La dura vita del mangaka
Il fumetto serializzato in Giappone è una delle industrie più importanti e redditizie. Le varie riviste specializzate hanno alle spalle un grande numero di autori che, ogni settimana, devono realizzare capitoli per la propria storia. Nell’arco di sette giorni devono essere pronti bozzetti, disegni, chine, dialoghi e didascalie. Un lavoro non da poco, che costringe gli autori a turni di lavoro devastanti.
Sonni brevi, pause ancora più brevi e ritmi molto elevati, costringono gli autori di manga a una vita tortuosa. Certo, molto spesso vantano al loro fianco dei collaboratori che sono in grado di mitigare parte del carico di lavoro. Tuttavia questo non sempre basta a dare loro una vita normale. Masashi Kishimoto, autore di Naruto, raccontò di avere giorni in cui doveva scegliere se cenare o farsi il bagno, con orari rigidamente scanditi che lo portavano ad avere, nel migliore dei casi, sei ore di sonno. Hiroshi Shiibashi, autore di I signori dei mostri e collaboratore di Hirohiki Araki, pubblicò la sua tabella settimanale, in cui figuravano solo tre ore libere nell’arco di sette giorni.
Un esempio particolarmente vistoso è quello di Eiichiro Oda, creatore di One Piece. In base a quanto detto dai suoi assistenti il mangaka dorme mediamente tre ore a notte, con sonni molto irregolari. Come se non bastasse, da perfezionista qual è, tende a curare personalmente diverse parti del lavoro, finendo spesso per pagarne il prezzo con una scarsa vita familiare (abita separato dalla moglie e dalle due figlie) e diversi problemi di salute. Quando il mangaka si prese una vacanza (i lettori ricorderanno il periodo di pausa prima del salto temporale) circolarono voci su una sua grave malattia, che lo stesso Oda fu costretto a smentire al momento dell’uscita del volume 62.
Ma il fatto che alcuni fan temessero la malattia di Oda non è certo un eccesso di preoccupazione. Sono stati diversi i mangaka che, nel corso della loro carriera, hanno sofferto infortuni per il lavoro. Può sembrare strano, ma i ritmi elevati per la creazione di un fumetto richiedono un’intensità lavorativa che spesso si traduce in un danno alla salute. Qualcuno, come Tetsuo Hara, ha finito per ricevere danni permanenti, come la perdita di un occhio. A questi ritmi forsennati si accompagnano spesso anche crolli psicologici. Il più eclatante fu quello del creatore di Pollon, Hideo Azuma, che in più occasioni nella vita cadde preda dell’alcolismo, finendo anche per fuggire dal lavoro e dalla famiglia e diventare un senzatetto, esperienza che ebbe modo di raccontare in una sua opera.
La morte di Kentaro Miura: un caso di Karoshi causato dal manga?
Siamo quindi giunti alla conclusione di questo nostro viaggio nel tetro mondo del Karoshi, tornando alla domanda che ci eravamo posti all’inizio: la morte di Kentaro Miura può essere dovuta agli sforzi della sua vita di mangaka? Una domanda alla quale difficilmente potremo rispondere, ma che continuerà a tormentarci.
La scomparsa di Miura ha senza dubbio sconvolto i fan. L’autore, amato per il suo stile di disegno unico e la sua capacità di realizzare eccellenti lavori di mitopoiesi, lascia dietro di sé una pesante eredità, fatta di opere incompiute, dubbi e recriminazioni. Da un lato è impossibile chiedersi se le lunghe pause di pubblicazione, tra un capitolo di Berserk e l’altro, non fossero dovute anche a problemi di salute. Dall’altro possiamo solo domandarci se questa morte prematura potesse essere prevenuta.
Nei giorni successivi alla notizia della sua scomparsa sono circolati molti dei messaggi che Miura ha rivolto ai fan negli ultimi anni. Il sensei lamentava lo scarso tempo libero (non aver fatto due giorni di riposo consecutivi per quattro anni), i problemi di salute dovuti al lavoro (febbre, perdita di peso), il poco sonno (accompagnato da un’alternanza di teina e caffeina), la dieta irregolare fatta di cioccolata e barrette energetiche. Una vita dedicata solo al lavoro, al fumetto. Conclusasi con la morte dell’autore per una dissezione aortica.
Il caso di Miura è senza dubbio particolare rispetto a quello di altri mangaka. Il creatore di Berserk vantava pochi collaboratori, una misura necessaria per mantenere quanto più inalterato il suo stile, così inconfondibile agli occhi dei fan di tutto il mondo. Questo lo ha portato a ritmi di lavoro peggiori rispetto a molti suoi colleghi, cosa già conosciuta da tempo. Che Miura realizzasse la maggior parte di Berserk di notte, in modo da sopperire ai diversi impegni lavorativi, è un aneddoto diffuso da anni.
Sarebbe facile trasformare Miura in un martire. In fondo è chiaro che lo stress causato dal lavoro abbia contribuito alla sua fine. Un lavoro volto a dare qualcosa ad altri, una sospensione da un mondo crudele. Meno facile è chiedersi se una vita fatta solo di manga valga davvero la pena di essere vissuta. Specie a fronte delle molte critiche piovute contro Miura per le sue “eccessive” pause. Oggi, a quasi un mese dalla sua scomparsa, possiamo solo chiederci se il manga non abbia contribuito alla morte di Kentaro Miura, facendo del sensei l’ennesimo caso di Karoshi.
(immagine di copertina a cura di Carl Court)