Il kawaii: oggi minimizzato a moda infantile, un tempo cavallo di battaglia di rivolte sociali

kawaii

l giorno d’oggi il kawaii è un concetto conosciuto in tutto il mondo, aiutato nella sua espansione dalla cultura pop giapponese, in particolare dagli anime e manga. È una parola globalmente riconosciuta al punto da finire nei testi di canzoni occidentali. Il significato è chiaro: carino, adorabile. Ci sono diverse declinazioni di questo concetto negli ambienti più disparati: moda, musica, marketing, arte e chi più ne ha più ne metta. Nonostante questo, però, quello che non tutti sanno è il motivo della nascita di questa “filosofia”, cioè una vera e propria controcultura. Un movimento dalle donne, per le donne, mirato a liberarle dal giogo di una società maschilista e consumistica in cui molte, anche al giorno d’oggi, non si riconoscevano.

Premesse storiche: giovani allo sbaraglio, cambiamenti sociali e incertezza del futuro

Come nacque il kawaii? Fu il risultato di eventi storici e problematiche sociali che raggiunsero un punto di ebollizione. Il contesto è il Giappone – ovviamente – degli anni ’60. In seguito al boom economico, il paese sperimentò la crescita economica che in Occidente era avvenuta nel corso di più di un secolo in appena 25 anni. Questo improvviso sviluppo portò ad un repentino cambiamento nello stile di vita della popolazione: urbanizzazione, scolarizzazione e crescita tecnologica scossero le fondamenta della società giapponese. L’estrema e improvvisa competizione educativa e lavorativa era a livelli mai visti prima e nella generazione che seguì questi causò effetti imprevisti e catastrofici. La bolla scoppiò: l’educazione universitaria, un tempo elitaria, ora era alla portata di tutti, ma non c’erano abbastanza lavori per soddisfare lo tsunami di diplomati. Dopo anni di terrorismo psicologico e dopo essersi spremuti per studiare fino allo sfinimento per la promessa di un buon lavoro, i giovani giapponesi dovettero farsi la guerra o accontentarsi di lavori per cui erano fin troppo qualificati.

Non è quindi da stupirsi se, per tutta risposta, la competizione educativa si esacerbò, portando a fenomeni come le “mamme tigre”, lo shiken jigoku (l’infernale esame d’ingresso universitario) e rendendo vitali sciocchezze come “il debutto al parco giochi” del pargolo di turno. Ben presto ci furono delle rivolte studentesche, mosse da giovani stanchi, senza una meta, con un futuro incerto. Essi vedevano nel sistema scolastico la colpa di tutto, con fin troppe mancanze, insomma: più buchi che formaggio. E in questo scenario, che ruolo avevano le donne? Beh, purtroppo le studentesse vennero ridotte ai propri ruoli di genere, rinchiuse nelle università occupate a pulire, cucinare o al massimo medicare i feriti. Non c’era posto per i loro problemi nel movimento e addirittura alcune violenze vennero spazzate sotto il tappeto per non destabilizzare le proteste.

Nascita del kawaii, l’influenza di Lady Oscar e il sovvertimento dei ruoli di genere

Negli anni ’70 ci fu una seconda ondata di movimenti studenteschi. Stavolta, però, si facevano anche discorsi sulla moralità, per esempio sulle discriminazioni delle minoranze, specialmente in seguito agli effetti della guerra. Le studentesse giapponesi trovarono infine un’occasione per fare luce anche sulle loro problematiche: costanti discriminazioni e stupri, società e contesto lavorativo misogini che disincentivavano la carriera, aborto illegale così come la pillola contraccettiva. Le giovani donne giapponesi erano costrette ad avere figli, abbandonare la propria carriera accademica o lavorativa e annullarsi per dedicarsi alla famiglia. Il prospetto di crescere era diventato qualcosa di cui avere paura: specialmente in un periodo storico come gli anni ’80 – intriso di arte, scoperta di sé, desiderio di esprimersi e con l’aiuto di una società consumistica – dover gettare al vento la propria individualità per sottostare al ruolo di madre e moglie devota era una condanna. Ci si voleva, quindi, attaccare con le unghie e con i denti a ciò che fosse più anti-adulto – e quindi antiautoritario – possibile: innocenza, infantilità, purezza. Ed è proprio così che nacque il kawaii.

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L’identità del movimento venne coadiuvata parecchio dai manga più in voga dell’epoca. Uno in particolare fu sicuramente lo shōjo Le rose di VersaillesLady Oscar, per intenderci. L’autrice Ryoko Ikeda era stata influenzata, guarda caso, dalla seconda ondata del movimento femminista, creando un’opera sovversiva e che contraddiceva i ruoli di genere traduzionali. I temi di rivoluzione sociale racchiusi in un’artistica cornice barocca e rococò fecero presa sulle donne, ispirando sia le loro lotte sociali e politiche che la loro moda. Nacque così il anche genere lolita, che imperversò nelle strade della capitale e in particolare nel quartiere di Harajuku (conosciuto ancora oggi come il quartiere della moda) che fertilizzava il movimento grazie ai suoi innumerevoli negozi.

Chi nacque per primo: la Sanrio o il kawaii?

Un negozio ebbe particolarmente successo: il 6%DOKIDOKI, boutique dello stilista Sebastian Masuda che trasse grande ispirazione dalla Sanrio. Questa altro non è una delle ditte giapponesi più di successo al mondo, conosciuta globalmente non tanto per il suo nome, quanto per quello delle sue mascotte, Hello Kitty in primis. La Sanrio fu una delle aziende in grado di leggere meglio il mercato, attingendo a piene mani dal kawaii e divenendo una vera e propria risposta commerciale al movimento. Tra la Sanrio, Harajuku e il kawaii si va a creare una specie di triangolo delle Bermuda, un uroboro dove l’uno sostenta e ispira l’altro in un ciclo senza fine. Hello Kitty in particolare divenne non solo la faccia della Sanrio nel mondo, ma proprio del movimento kawaii. Ha aiutato parecchio che la famosa gattina non avesse un design particolarmente riconducibile ad uno specifico paese, facilitando la sua assimilazione a livello globale. Presto la Sanrio ispirò quasi ogni azienda presente sul suolo giapponese, che si munì di mascotte kawaii per mostrarsi umane e meglio connettersi con il pubblico. Persino le forze dell’ordine hanno una propria mascotte!

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Globalizzazione e matite meccaniche

Lo sviluppo tecnologico di quegli anni, l’estesa scolarizzazione portarono con sé un elemento che divenne fondamentale per l’identità del movimento kawaii: le matite meccaniche. La diffusione di questo oggetto nelle scuole sostituì il vetusto pennello con inchiostro, permettendo di scrivere con un tratto decisamente più sottile e meno ingombrante. Una delle prime istanze in cui venne utilizzato il termine kawaii fu proprio per descrivere proprio lo stile di scrittura che prese piede tra le giovani studentesse di quegli anni, reso possibile dalle sopraccitate matite meccaniche: il burikko—ji o maru-ji. In realtà, questo particolare stile di scrittura venne chiamato in molti modi. Il termine burikkko-ji riflette la sua natura infantile, come se a scrivere fosse un bimbo piccolo, mentre maru-ji fa riferimento al suo aspetto tondeggiante. Le righe erano piene di elementi come cuori, stelline e faccine, che potrebbero aver ispirato l’uso delle emoticon nei primi cellulari!

Inizialmente questo stile di scrittura venne vietato in parecchie scuole per la sua natura illeggibile – a detta dei professori – ma ben presto divenne talmente conosciuto da venire implementato dappertutto, soprattutto nel lato marketing e pubblicità. Ancora oggi, il burikko-ji si trova dappertutto con le sue iconiche emoticon e le pubblicità dei prodotti più disparati rese carine fino all’inverosimile.

Kawaii e punk, i due lati della medaglia in luoghi diversi del mondo

Il kawaii, quindi, è nato come una controcultura di ribellione, un’arma che le giovani donne utilizzavano per aggrapparsi alla propria individualità e gioventù nel tentativo di non crescere. Ma se in Giappone la controcultura era guidata dal kawaii, dall’altro lato dell’oceano c’era il punk. In America la ribellione consisteva nell’esplorare ciò che la società vedeva come tabù: sesso, alcol, droghe, tatuaggi, moda e acconciature estreme e colorate. Il filone principale era il rock, una musica rumorosa, con percussioni e suoni spaccatimpani e volgari secondo il buon gusto dell’epoca. Un po’ ipocrita, se vogliamo, visto che oggi il rock giapponese è uno dei più prolifici e riconosciuti al mondo. Per quanto avessero intenti simili, comunque, dal punto di vista giapponese questa non era una via percorribile. Quasi tutti gli elementi caratterizzanti del punk – sesso, alcol, droga, etc. – erano accostate al mondo adulto, elemento da cui le giovani donne giapponesi si volevano distanziare il più possibile.

Non c’erano incentivi o lati positivi nel diventare una donna adulta. La sessualità femminile era qualcosa di già abbastanza stigmatizzato dalla “puritana” e misogina società giapponese; nello sfortunato caso di una gravidanza, poi, era finita: visto che l’aborto era illegale, la scelta era rischiare la morte per sbarazzarsi della gravidanza indesiderata con metodi “fai da te” oppure essere costretta a partorire (rischiando comunque la vita) e a crescere il bambino, siglando la condanna a morte della propria persona. Il kawaii divenne quindi escapismo, una questione di sopravvivenza, uno vero e proprio scudo dal mondo adulto: pizzi, nastri, gonne voluminose, peluche e altri elementi di moda infantile le rendevano volutamente poco attraenti agli occhi degli uomini, che le additavano come grottesche, e troppo poco mature e responsabili per essere viste come adulte dalla società.

La sessualizzazione del kawaii: da movimento di liberazione femminile a fetish maschile

Gli uomini giapponesi videro nel movimento kawaii un nemico da sconfiggere: le giovani donne erano decisamente poco propense ad una relazione con un uomo e non parliamo della moda lolita, decisamente poco attraente rispetto agli standard di bellezza dell’epoca pieni di donne voluttuose e mezze nude. Questo portò ad un’impennata di uomini single che, invece di comprendere i motivi del movimento, risolsero di sessualizzare qualcosa che per definizione non voleva e doveva essere sessualizzato. Ed ecco che frotte di materiale pornografico animato e live action con protagoniste ragazze giovanissime e vestite di pizzi e merletti invase il mercato dell’intrattenimento per adulti giapponese e, in seguito, del mondo.

Il kawaii non coincideva assolutamente con la bellezza, o almeno con quella mainstream, desiderabile dagli uomini. Come espressione di sé, poi, il fashion diventava anche un outlet per la propria salute mentale – concetto che in Giappone ancora oggi è largamente ignorato o minimizzato. Purtroppo, nonostante uno degli elementi caratterizzanti del kawaii fosse la lotta alla sessualizzazione delle donne, al giorno d’oggi la moda lolita viene vista come avente connotati intrinsecamente sessuali, un fetish, senza che si tenti di capire la sua identità e il motivo per cui è nato. Tuttavia, c’è tanto potere nell’abbracciare la sessualità tanto quanto nel distanziarsi da essa, e le seguaci del kawaii lo sanno bene, sia allora che oggi.

Laura Moronato
Originaria dei colli euganei, ora divide la sua vita tra la propria terra natia e Venezia, dove studia lingua e cultura giapponese all’università di Ca’ Foscari. Venuta al mondo nell’inverno del ’97, il freddo sembra non lasciarla mai e la si può vedere spesso spuntare sotto vari strati di vestiti e coperte. Quando non è impegnata a lottare per la propria sopravvivenza tra lavoretti e una lingua che non ricambia il suo amore, il suo passatempo preferito è scoprire nuove serie tv, anime o libri da iniettarsi in endovena. È una circense ansiosa che cerca di mantenere l’equilibrio tra il divulgare le proprie passioni ad amici e conoscenti e non rompere l’anima al prossimo; ma in caso sia troppo molesta la si può facilmente zittire con articoli di cancelleria e quaderni nuovi. Recentemente sta ampliando la sua cultura nerd anche alla Corea e alla Cina.