Ottant’anni e non sentirli
È proprio vero che l’età è solo un numero, soprattutto se si parla di manga. A più di vent’anni dall’uscita della sua ultima serie a fumetti, Kazuo Umezu – 84 anni compiuti lo scorso settembre – continua a essere uno degli autori più letti dal pubblico maturo, nonché uno dei più studiati dagli accademici in virtù del suo sguardo lucido, quasi psicanalitico, sulla condizione umana.
Appartenente alla generazione dei grandi riformatori della tradizione tezukiana, tra cui figura anche qualche signor nessuno del calibro di Leiji Matsumoto o Yoshiyuki Tomino, Umezu – in arte Umezz – trascorre la sua giovinezza lontano dal turbinio economico e culturale della capitale, sviluppando un immaginario popolato di superstizioni e leggende del Giappone rurale che gli sarebbe tornato poi utile per scrivere le sue celebri storie del terrore.
A valergli i maggiori riconoscimenti è stata infatti la sua produzione horror, da tempo disponibile in traduzione nell’Occidente anglofono ma solo di recente arrivata nelle nostre librerie, grazie allo sforzo di alcune case editrici (Hikari, In Your Face, Star Comics) che si sono incaricate di colmare questa imperdonabile lacuna.
A tal proposito, è interessante notare come molte delle edizioni straniere – italiane comprese – dei capolavori di Umezu siano state riclassificate come seinen, quando in realtà il loro target originario era quello dei giovanissimi che, frequentando le elementari o al più le medie, avevano tutto il tempo di stare al passo con le infinite uscite mensili su cui le avventure dei loro piccoli alter-ego venivano pubblicate.
La prima cosa da puntualizzare è appunto che, nonostante la critica contemporanea opti spesso per una rilettura “adulta” dei temi trattati, Kazuo Umezu nasce e resta autore shōnen, e in quanto tale è stato canonizzato sin dal suo periodo di massima produzione quando, tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, era arrivato a pubblicare anche su tre riviste contemporaneamente. Diciamo ciò non certo per sminuirlo, quanto per fare una premessa necessaria a comprendere alcune semplificazioni che caratterizzano il suo tratto e la sua scrittura, evidenti soprattutto in quei manga umoristici come Again (1970-1972) e Makoto-chan (1976-1981), che di orrorifico e young adult hanno ben poco.
I bambini rappresentati sempre androgini e paffuti, come usciti da un fumetto pedagogico del periodo Taishō; i colpi di scena paradossali, dovuti a madornali distrazioni o dei ex machina che dal nulla compaiono a risolvere la situazione; la caratterizzazione netta dei personaggi, perlopiù statici durante l’arco narrativo, sono tutti stilemi che Umezu ha introiettato non tanto per vicinanza ai propri intenti artistici, quanto perché all’epoca questo era il modo in cui si scrivevano – e si vendevano – storie per preadolescenti. Nemmeno questa constatazione vuole però ridimensionare il suo apporto all’evoluzione del manga, anzi: è proprio muovendosi con cognizione di causa all’interno di un genere ben consolidato e da lui stesso padroneggiato che Umezu ha saputo scardinarlo dall’interno, portando a compimento la sua personale rivoluzione. Vediamo come.
Destrutturare lo shōnen
Come si diceva all’inizio, sono stati i racconti del terrore a fare la fortuna di Umezu, ma la via per ritagliarsi un posto d’onore in questa nicchia fu tutt’altro che breve. Infatti, quando nel 1962 decise di trasferirsi a Tokyo per dare una svolta alla propria carriera e dare fondo al suo repertorio di leggende popolari, la scena era già dominata dal popolarissimo Gegege no Kitarō (1960-1969) di Shigeru Mizuki – anch’egli originario del Kansai –, che su quelle stesse leggende aveva costruito la sua fama. Kitarō poteva vantare inoltre un meccanismo di gag dall’orologeria perfetta e un charadesign riconoscibile a colpo d’occhio, ragion per cui una rielaborazione comica di kwaidan (storie di fantasmi) tradizionali, per quanto brillante, sarebbe stata presto dimenticata, a maggior ragione se si considera che il tratto di Umezu era già al tempo percepito come un po’ old fashioned.
Da qui il lampo di genio: se Mizuki aveva reinterpretando il folclore giapponese in chiave umoristica, popolandolo di personaggi mostruosi all’apparenza ma dal cuore d’oro, Umezu ne recupera soltanto alcuni tópoi (la trasformazione, lo scambio di corpi, il sovvertimento dell’ordine naturale), calandoli in un contesto urbano in cui si manifestano le storture del Giappone postbellico, nonché dell’umanità in senso assoluto.
Il primo elemento di originalità conseguente a questa scelta è la demolizione del mito dell’infanzia come età dell’innocenza: un mito con cui Umezu stesso era cresciuto, leggendo dei giovanotti avventurosi e integerrimi di Tezuka che, nonostante le mille avversità, riuscivano alla fine a far prevalere la propria visione del mondo su quella (perversa) degli adulti.
Al contrario, nelle opere di Umezu nessuno è al sicuro, e la schiacciante prestanza fisica degli adulti non lascia spazio ai più piccoli per rinegoziare i rapporti di forza: sia grandi che piccini devono quindi ricorrere agli stessi espedienti per farsi valere, spesso venendo meno agli obblighi imposti dalla loro età o ruolo sociale. Pensiamo per esempio al personale scolastico di Aula alla deriva (Hyōryū kyōshitsu, 1972-1974, vincitore del Premio Shōgakukan a fine serializzazione), che ancor prima di elaborare una soluzione per risolvere l’incidente – il loro istituto sembra essere stato catapultato in una zona desertica – si lascia andare ad aggressioni e furti ai danni di alunni e colleghi.
Ma se per la storia appena citata potrebbe valere l’attenuante dell’istinto di sopravvivenza, altrettanto non si può dire della protagonista di Baptism (Senrei, 1974-1976), dove la “millennium actress” Izumi Wakakusa – la cui carriera allude a quella della superstar del cinema classico Setsuko Hara – mette a punto una terrificante cura di bellezza, ovvero innestare il proprio cervello nel corpo della figlia Sakura per godere di una seconda giovinezza. La spirale di follia non travolge però soltanto madre e figlia, ma anche la famiglia del maestro di scuola tanto amato da Sakura/Izumi, come pure le compagne di classe che, non potendo pervenire a una spiegazione logica, finiscono presto per ricorrere alla violenza.
Vista la facilità con cui personaggi di ogni età indulgono alla crudeltà, Umezu instilla nel lettore un dubbio: e se fosse proprio la crudeltà la caratteristica precipua dell’essere umano, anziché la socialità o compassione convenzionalmente attribuitegli sia dalla tradizione cristiana che da quella buddista? È infatti nel dare sfogo ai suoi istinti più bassi, dal senso comune associati al Male, che l’Uomo riesce a dar fondo al proprio ingegno e a sormontare le difficoltà della vita, ovvero a raggiungere il suo massimo potenziale. Certo, trattandosi di shōnen, il lieto fine – o quantomeno una presa di posizione dell’enunciatario a favore dei “buoni” – a un certo punto arriva, ma è difficile stabilire dove finiscano le convenzioni di genere e dove inizi il messaggio che l’autore vuole realmente comunicare. Quel che è certo, è che suddetto Male – e gli attanti che nella storia lo incarnano – non è mai oggetto di una condanna definitiva, soprattutto alla luce delle sue infinite potenzialità narratologiche: per un cantastorie, che tesse le sue trame a partire dall’osservazione della realtà circostante, cosa resterebbe infatti da raccontare se la vittoria della luce sulle tenebre fosse sempre decisa in partenza?
A rimarcare questa ambiguità, non di rado nelle opere di Umezu compaiono delle figure semidivine, come il protagonista di Cat Eyed Boy (Nekome kozō, 1967-1976) o la misteriosa Orochi che dà il titolo all’omonima raccolta (Orochi, 1969-1970), il cui ruolo è quello di osservare ed eventualmente intervenire nelle vicende quotidiane di un’umanità allo sbando. Simili ai kami della tradizione shintoista, al di sopra della dicotomia Bene/Male invalsa nel mondo umano, costoro agiscono in base alla simpatia o al mero calcolo personale, talvolta arrivando a penalizzare quella che al lettore appare la “parte lesa”, e nella quale più facilmente si immedesima. Proviamo a immaginare cosa dovesse significare all’epoca per un lettore tra gli 8 e i 15 anni, abituato a racconti moraleggianti o che comunque raramente contraddicevano le aspettative del pubblico, imbattersi in un eroe (?) che si limita a spiare e talvolta persino godere – il modello è il voyeur di Yaneura no sanposha (1925), di Edogawa Ranpo – delle disgrazie altrui.
Un altro importante elemento di distacco dal genere di appartenenza è l’ossessione per la deformità, la cui anormalità si riflette anche su psiche e condotta del deforme stesso. Se infatti i mostri di Mizuki, come ancor prima il Tetsuwan Atomu di Tezuka, volevano dimostrare come l’aspetto esteriore non avesse nulla a che fare con l’interiorità, e che quindi persino dei non-morti o un robot potessero dar prova di buon cuore, i freaks di Umezu vivono in un totale rifiuto della propria bruttezza. Consapevoli dello stigma sociale che questa comporta, finiscono ben presto per chiudersi in se stessi e odiare la “normalità” in base alla quale vengono discriminati: di conseguenza, arrivano a violare ogni legge di natura per estendere la propria deformità al mondo o, viceversa, per assumere un aspetto normale con cui passare inosservati e vendicarsi in incognito.
Questa costante è riconducibile a sua volta a una duplice influenza: da un lato, i già citati racconti popolari sugli yōkai (lett. “apparizioni inquietanti”), i “mostri” giapponesi, la cui prima facoltà è quella di mutare aspetto onde terrorizzare i curiosi; dall’altro, la tradizione dell’ero guro, che dominava la produzione letteraria e pittorica a cavallo tra gli anni Venti e Trenta e che Umezu ben conosceva – dagli anni Ottanta questa corrente avrebbe vissuto un secondo rinascimento, grazie ai manga di Suehiro Maruo.
La luce in fondo al tunnel: Io sono Shingo
Infine, pur non rientrando nel novero delle storie del terrore, non si può fare a meno di spendere qualche parola su Io sono Shingo (Watashi wa Shingo, 1982-1986), sotto certi aspetti l’opera più complessa di Umezu. In questo racconto di fantascienza due bambini, Marine e Satoru, programmano un robot a uso industriale – un semplice braccio meccanico – in modo che impari a riconoscerli come suoi genitori. Il suo sistema diventa sempre più sofisticato, arrivando dopo alcuni anni a sviluppare una coscienza (è lui lo Shingo del titolo) e una volontà: riunire Marine e Satoru, separati dal corso degli eventi.
Come dichiarato dallo stesso Umezu, il desiderio di scrivere una storia sulle potenzialità dell’interazione uomo-macchina sorse dall’improvviso balzo digitale compiuto dal Giappone sulla fine degli anni Ottanta, nel tentativo di dare una risposta ottimista a una serie di dubbi che autori più giovani – Akira di Ōtomo fa la sua comparsa su Weekly Young Magazine proprio nell’82, e dietro l’angolo c’era anche Ghost in the Shell (1989-1990) di Shirō – parevano declinare in chiave quasi crepuscolare. Io sono Shingo si configura insomma come un’opera-testamento, un cambio di rotta inaspettatamente indulgente nella produzione di un eterno scettico delle “magnifiche sorti e progressive”, che a quanto pare non ha saputo però resistere alla tentazione di immaginare un futuro migliore per i suoi giovanissimi lettori.
Detto questo, non ci resta che augurarvi buona lettura e di immergervi nel manga che più ha attirato la vostra attenzione. Il grande Umezz è finalmente sui nostri scaffali, approfittatene al più presto!