Dopo quasi dieci anni di intenso sviluppo e a sette anni dalla pubblicazione del primo anno, Kentucky Route Zero volge al termine. Vi proponiamo, quindi, uno sguardo completo sull’opera di Cardboard Computer: sui suoi significati tanto narrativi quanto politici, sulle ispirazioni e sulla sua eredità.
In un mondo di vaporware, progetti allungati, ripensamenti e cambi in itinere che vengono lanciati sul mercato alla bell’e meglio; un progetto come Kentucky Route Zero di Cardboard Computer viene automaticamente visto con discreta diffidenza.
A ragione o a torto la prima reazione che più probabilmente può avere chi scopre la storia produttiva di Kentucky Route Zero è probabilmente di diffusa diffidenza. Si da il caso, infatti, che il gioco abbia avuto una gestazione che ha sfiorato di poco i dieci anni di durata, vedendo l’uscita dei cinque atti che compongono il prodotto centellinata su un periodo di sette anni.
Vi posso dire in anticipo, al netto della pubblicazione dell’ultimo episodio, che l’attesa non solo è stata ripagata e ogni secondo di gioco è coerente ai precedenti e ai successivi; ma anche che la diffidenza, questa volta, non è il modo giusto con cui approcciare il tutto.
Non c’è scetticismo che tenga già dal primo secondo in cui mettiamo piede nella rotta zero fino al completamento della quasi dozzina di ore che serve per portare a termine la storia. Mi spingo anzi oltre facendo una piccola provocazione: Kentucky Route Zero aveva bisogno di uno sviluppo così lungo e protratto nel tempo.
C’era disperata necessità di attraversare per intero una generazione (e mezza) di hardware e di discorsi sul videogioco, perché i tre di Cardboard Computer hanno voluto e dovuto percorrere la strada dell’evoluzione del mercato più di nicchia seguendone i cambiamenti di tono fino ad arrivare a un pubblico decisamente diverso e più ampio di quel che potevano raggiungere con la prima iterazione lanciata ormai nove anni fa su Kickstarter.
Kentucky Route Zero, in buona sostanza, non è solo un gioco che vuole rendere omaggio al realismo magico (sia quello letterario di Rulfo, Marquez o che quello pittorico) e al teatro sperimentale per veicolare messaggi fortemente politici ma è anche e soprattutto un trattato circa ciò che hanno significato i videogiochi indipendenti nell’ultimo decennio, a cavallo tra due generazioni.
In un modo non dissimile dal cinema e dalla musica, infatti, il concetto di “indie” ha scavalcato la sua stessa definizione sancendone più che una caratteristica produttiva – che comunque spesso resta e non raggiunge i grandi distributori – una filosofia di realizzazione, un approccio al mezzo.
Per questo non stupisce affatto che a credere nel gioco e a volerlo distribuire nella sua forma completa anche sulle console casalinghe sia stata Annapurna Interactive, distaccamento di una casa di produzione e distribuzione che già nel cinema ha ibridato i confini tra mainstream e nicchia.
Scena, atto, interludio
La struttura e l’interazione chiamate in causa in Kentucky Route Zero sono l’occasione per mettere in pratica, da parte degli autori, un’idea teorica che ha il suo compimento in ciò che autodefiniscono theatrical design. Una progettazione che fa entrare chi gioca nell’azione come se fosse un regista di uno spettacolo teatrale, attraverso la quale sceglie come scandire le battute, quando proseguire con le scene e il numero delle stesse e in che modo i personaggi (come fossero davvero degli attori da coordinare) si alternano sulla scena, partecipando o no a un determinato palco su cui si svolge l’azione.
Giocatrici e giocatori, quindi, hanno la possibilità di partecipare a un momento di realizzazione di una scrittura già definita in modo collettivo e congiunto con chi l’ha tessuta. La storia rimane e resta la stessa indipendentemente dalle scelte fatte ma è il modo in cui questa viene diretta e svolta a rappresentare l’interazione vera e propria.
Giocando ci viene data la possibilità di decidere la messa in pratica (e in scena) di qualcosa a cui non abbiamo partecipato direttamente, orientando il discorso in una direzione che è contemporaneamente nostra ma anche totalmente estranea.
Un processo illusorio che si concretizza mano a mano che le ore dentro Kentucky Route Zero proseguono, dandoci la possibilità di decidere noi stessi di quante scene è composto un atto che – di fatto – è già scritto dal suo inizio alla sua conclusione. Sta a noi capire fin dove vogliamo addentrarci e soprattutto quanto – in relazione ai limiti – vogliamo intervenire.
Kentucky Route Zero, poi, nella sua struttura fatti di atti e interludi restituisce a chi gioca due aspetti: la necessità di un processo che si prenda del tempo per concretizzarsi e la variazione (sempre coerente) di tono, intento e approccio interattivo. Ognuno dei cinque episodi e dei quattro momenti che li collegano è strutturato per presentare all’utente un modo diverso per raggiungere lo stesso scopo espressivo.
Viene fuori in modo evidente come fosse necessario del tempo e un’accurata ricerca narrativa, di programmazione e di progetto per poter far in modo che la sensazione di giocare ciascuna parte contemporaneamente diversa e coerente con il resto. Questo accade anche internamente alla singola sezione, dove il cambio repentino di punto di vista, di atmosfera e di approccio si accorda al resto creando tanti momenti difficilmente dimenticabili, limpidamente distinti ma incredibilmente connessi e sinfonici l’uno rispetto agli altri.
Scene, atti e interludi sono quindi delle componenti singole concepite per stare in un insieme. Viene a crearsi così una lista infinita di sensazioni, emozioni e meccaniche che sulla carta potrebbero portare a un disorientamento ma che nell’atto pratico costituiscono un grande tutt’uno fatto di episodi che si possono distinguere ma che non potrebbero in nessun modo essere isolati.
L’America spogliata del suo stesso sogno
Se a livello strutturale e progettuale Kentucky Route Zero appare come un lavoro molto complesso, dal punto di vista espressivo, tematico e narrativo – componenti che sono estremamente collegate con le due precedenti – il passo compiuto è ancora più estremo. Come già accennato, il gioco pesca a piene mani dalla scuola sudamericana (e in parte italiana) del realismo magico, corrente artistica che fa della restituzione attonita e sognante del reale.
Nel gioco, infatti, troviamo tutti gli stilemi tipici di questa intenzione creativa: elementi soprannaturali, folklore e tradizione, atemporalità e ambiguità di epoche e molteplicità di prospettive. Qui Cardboard Computer vuole quasi fornire un piccolo bignami in forma videoludica di quel che il realismo magico ha fatto con altri mezzi incasellandone le caratteristiche in una storia che è contemporaneamente molto propria e estremamente aderente con i temi generalmente trattati nel genere di riferimento.
Raccontare per filo e per segno la storia di Conway, protagonista del gioco, sarebbe uno spreco e rovinerebbe il piacere di risolvere la matassa intricata di situazioni che vengono presentate a chi gioca. È possibile però andare ad appuntare i temi che Kentucky Route Zero porta sul piatto. La narrazione vuole coinvolgere il giocatore in una realtà totalmente americana che è lontana dagli sfarzi positivistici ed edonisti dell’american dream ma che, al contempo, li ha subiti e ne ha pagato le conseguenze molto di più delle grandi città.
È la storia di un uomo che vuole effettuare la sua ultima consegna in un mondo che ha abbandonato tutti i suoi abitanti perché stufo degli abusi di ricche compagnie elettriche ai danni dei minatori, è la storia di un popolo che non c’è più di cui i nuovi inquilini devono raccogliere l’eredità, è la storia di strade e fiumi sterminati che collegano piccoli centri abitati dentro i quali sconosciuti devono creare comunità per non perire di fronte al progresso imposto.
I tre autori, quindi, vogliono parlare della situazione di quegli Stati Uniti mai abbastanza considerati che però ne rappresentano cuore pulsante e il motivo stesso dell’esistenza della federazione. Minuscoli focolai collegati tra di loro da infinite lingue di asfalto che nascondono storie perdute e cancellate da una ricerca del profitto sempre più cieca e indifferente a ciò che il terreno ancora ricorda e che, in modo suggestivo e apparentemente distante dalla realtà, restituisce a chi lo calpesta anche soltanto per pochi passi.
Per concludere, Kentucky Route Zero è un circolo narrativo che fa del teatro e del realismo magico i motori attraverso il quale comunicare con chi gioca per avviare un dialogo sui ricordi, sulle testimonianze, sui passaggi e sull’eredità.
Un percorso ricorsivo e tondo che inizia dove finisce e viceversa, una storia che vuole far accorgere di quel che non percepiamo ma è intorno a noi in qualunque istante. Un prodotto formalmente impeccabile che coniuga grandi riferimenti del passato (oltre i già citati fanno capolino anche Ovidio, Omero e Beckett) con l’attualità del mondo occidentale, regalando a giocatrici e giocatori momenti di indimenticabile potenza.
Un viaggio durato un decennio che si conclude in modo coerente e che non ha mai perso la sua carica e la sua originalità, che provoca invidia in chi – come chi vi scrive – non ha avuto il coraggio di seguirlo durante la sua gestazione ma che in ogni caso arriva al punto in modo efficace, convincente e incredibilmente appagante. Finito tutto resta un sorriso, sul volto di chi gioca, per avere avuto l’occasione di poter percorrere quella strada.