Il supereroe che voleva essere un fumetto
Era il lontano 2008 quando Kick-Ass nasceva dalla penna di Mark Millar, allora già fenomenale sebbene meno arroccato nel suo Millarworld (la magica terra dove piovono opzioni cinematografiche), e dalla matita del consacrato, oggi più di ieri, John Romita Jr., duo che avrebbe accompagnato poi l’intera serie di tre volumi e uno spin-off. Oggi, più di nove anni dopo, quella stessa serie ritorna sotto forma di uscite in edicola con il Corriere dello Sport e Tuttosport, perciò non c’è momento migliore di questo per sedersi un attimo a riflettere sull’importanza, talvolta sottovalutata, talvolta sopravvalutata, di un fumetto che aspirava a diventare “fenomeno”.
O forse no, forse Kick-Ass non voleva diventare fenomeno, forse non se lo immaginava. Eppure, per tipologia di storia e temi trattati, è volente o nolente uno specchio generazionale della società, persino più veggente di quel che si è constatato alla sua uscita, o alla successiva uscita del film. Perché? Perché Kick-Ass è un fumetto di supereroi, in un mondo senza superpoteri. È il “sogno batmaniano” di ogni ragazzo, appassionato di comic-book e assetato di giustizia, o avventura, o auto-realizzazione. Chi di voi non ha mai sognato, una volta o l’altra, di prendere le mosse per sanare una o più piaghe della società, ricevendo in cambio la gloria? Fosse anche solo per riparare a un torto subito, un maltrattamento, uno scherzo di cattivo gusto.
Kick-Ass, se vi fosse bisogno di riassumerlo, è la storia di Dave Lizewski, un ragazzo che, dal nulla, decide di diventare un supereroe, compra il costume, si allena, si lancia nella lotta al crimine e… fallisce. Almeno inizialmente, fallisce di brutto. Viene picchiato e rischia la morte, ma non si dà per vinto e, mesi dopo, torna di ronda sulle strade. Al secondo tentativo, qualcuno lo riprende e lo mette su Youtube, dove il suo filmato diventa presto virale. Il suo sogno di fama è realizzato, ma sarà questa la fine delle sue avventure?
Certo che no, perché è questo il vero inizio di Kick-Ass. Cosa succederebbe se la nostra società, narcisista e innamorata del supereroe in quanto incarnazione dei concetti di potere e giustizia nelle mani del popolo, credesse davvero possibile la strada del vigilantismo? Nel fumetto, l’eroe che dà il titolo alla storia diviene in men che non si dica testimonial di un movimento che spinge decine e decine di persone, scontente e maltrattate dalle proprie vite ordinarie, a crearsi una seconda identità come supereroi. Il supereroismo diventa il nuovo, reale, network sociale per cui tutti, ma veramente tutti, impazziscono.
Il fumetto di Millar, nel rappresentare i punti deboli della socialità, è davvero maestro. Non a caso, Kick-Ass è una commedia dalle tinte forti, a volte volutamente in eccesso. Non a caso la violenza è una costante inevitabile e paradigmatica. Non a caso, infine, lo stesso movimento dei supereroi ci mette pochissimo a degenerare e perdere contatto con la realtà dalla quale si era generato per disperata frustrazione. È il manuale di una fissazione, il riflesso di una mania, amplificata su scala popolare. Lasciate stare che il “problema” (metaforico e non) sotto la lente di ingrandimento sia il voler essere super-forti a tutti i costi. La criminalità, ovviamente esistente e dilagante, quasi diventa il male minore in confronto al vortice discendente e dilagante di sete di potere auto-legittimato. Un potere che, a quanto pare, è alla portata di chiunque lo voglia, a patto che sia forte abbastanza da prenderlo per sé e mantenerlo saldo tra le proprie mani… insanguinate.
Un ritratto inquietante, quindi, messo su carta da un sempre ineccepibile Romita Jr., che non si risparmia di disegnare una sola goccia di sangue, tra gli ettolitri che ne vengono versati. La trama è volutamente crudele e pessimista in modo parossistico, in netto contrasto con i sentimenti del protagonista, quel Dave Lizewski che si è convinto di volere fama e giustizia per un bene superiore e illuso che il suo esempio potesse essere seguito solo nella maniera corretta. È il sogno batmaniano, che si trasforma in incubo batmaniano, con una Gotham City sempre più tendente alle risate folli echeggianti tra le mura dell’Arkham Asylum.
Certo, però, che ora è facile vedere tanti e tali livelli di lettura, molto più che all’epoca. Non sappiamo quanto di questo fosse nelle intenzioni di Mark Millar, lo stesso sceneggiatore illustre che ha creato gli Ultimates, punto più alto del fu Universo Ultimate di Marvel, ma sappiamo che queste analisi sono nelle azioni, sotto forma di fumetto, dell’autore. D’altronde più e più volte Millar si è dimostrato non solo in grado ma a suo agio nello scrivere storie controverse che mettono in risalto grandi ipocrisie. Gli stessi Ultimates, o il suo ciclo di Authority (da cui Ultimates, probabilmente, prese un tantino ispirazione). A volerla fare più semplice, Kick-Ass si riferisce solamente alla nostra pesante infatuazione per la figura del super-eroe e super-uomo, infatuazione che, peraltro, negli anni si è ulteriormente acuita.
E forse da questo deriva l’accoglienza tiepida riservata al film, che non è andato oltre la seconda iterazione. Probabilmente, la pellicola di Matthew Vaughn non ha saputo bilanciare a dovere il suo patrimonio genetico per metà derivante dal Cinefumetto, che onora e persegue, e per metà da chi invece prende in giro quello stesso genere, dall’interno, come e più di un Deadpool a caso. In questo, crediamo (ma è ancora presto per dirlo), sul grande schermo si è comportato meglio Kingsman, franchise cinematografico quasi arrivato al suo secondo capitolo e tratto da un altro fumetto milleriano, The Secret Service, che si fa beffe invece della narrazione spy-avventurosa dai tipici tratti british del James Bond. Che poi “Bond, James Bond”, non è forse un altro supereroe? Un cugino lontano, magari, di un qualsivoglia “Kent, Clark Kent”.
Insomma, dopo tutti questi anni, cos’è stato Kick-Ass e cosa potrà essere ancora? Un fumetto appassionante, ben scritto e ben disegnato, da leggere di corsa se non siete allergici a usi splatter di trama e violenza stessa. Una storia dai temi forti e delicati, che mette in scena sentimenti e passioni, sì, ma anche le loro derive patologiche e traumatiche. Uno specchio di ciò che la nostra società potrebbe diventare, se un giorno la linea tra sogno e follia, tra ideale e ego, ambizione e smania, diventasse abbastanza sottile da permetterci di valicarla. Kick-Ass era “l’eroe springsteeniano” prima che fosse mainstream, senza dubbio, ma allo stesso tempo era anche il “villain springsteeniano”, ed è forse in questo monito che possiamo trovare il suo più profondo e prezioso consiglio.