Il film di Scorsese racconta il ventesimo secolo come pochi altri sono riusciti a fare
Se dovessi identificare Killers of the Flower Moon, ultima fatica di Martin Scorsese, con una parola chiave, probabilmente citerei il coraggio.
Banalmente, il coraggio di realizzare un film lungo 200 minuti, una di quelle cose che puoi permetterti (quasi) solamente se sei Scorsese. Ma anche il coraggio di far coesistere sulla scena due “prime donne” come DiCaprio e De Niro, abituati a troneggiare, e a tenere le fila di tutto quando poi tra i due si scatenano screzi e dissapori. Infine il più importante, ovvero il coraggio dei temi trattati.
Perché sembrerà scontato, ma fare un film in cui emerge con forza il potere della Massoneria, quello del petrolio e degli idrocarburi, e quello dei ‘nuovi’ americani, raccontati in modo tutt’altro che laudativo, non è qualcosa che a Hollywood puoi fare con tanta leggerezza.
Il thriller western di Scorsese ci racconta gli omicidi ai danni del popolo Osage dei primi anni Venti negli Stati Uniti, partendo dal sul bestseller saggistico di David Grann. Grazie al lavoro del co-sceneggiatore Eric Roth, il Maestro narra un’epopea dell’orrore, una macabra storia di omicidi seriali al limite del genocidio, in un’atmosfera di silenzio e indifferenza generale. E in fondo, Killers of the flower moon non è poi così diverso dagli altri western, raccontandoci di fatto una brutale conquista presa di terre e territori, di risorse e potere.
Mollie Burkhart – interpretata magistralmente da Lily Gladstone – rappresenta il simbolo delle donne native americane della tribù Osage, popolo divenuto inaspettatamente ricco perché quella terra dell’Oklahoma, in apparenza sterile e dalle scarse risorse in cui le autorità hanno permesso loro di insediarsi, si rivela invece essere una sconfinata riserva di petrolio. Quello che poteva inizialmente sembrare un enorme vantaggio, si tramuta nella loro condanna. Un popolo vessato, odiato, messo sotto scacco dai nuovi americani, e infine scosso da misteriose malattie che uccidono gli Osage come mosche, uno dopo l’altro. Tra questi, ovviamente, tutte le donne della famiglia di Mollie.
In questa comoda situazione si inserisce Ernest Buckarth, interpretato da Leonardo DiCaprio, un uomo ricco di ambizione e di bell’aspetto, ma privo di talento, e soprattutto servo dello zio, il “re” William Hale (Robert De Niro). William si vanta costantemente dei suoi buoni rapporti con gli Osage, ma è lui la mente dei numerosi omicidi ai danni di quel popolo. È lui che incoraggia il nipote a sposare Mollie e poi ancora a realizzare un terribile piano contro la sua famiglia, tutto – ma non solo – per una questione economica e di potere. Al netto delle due performance attoriali, inevitabilmente impeccabili da parte dei due divi, è eccezionale l’ambiguità che riesce a mostrare nel suo personaggio il nostro DiCaprio, al confine tra ignoranza e fiducia nei mezzi dello zio, e cinismo e vigliaccheria.
I sentimenti di Ernest nei confronti di sua moglie Mollie sembrano autentici, ma non riescono a scollarsi da un contesto denso di violenza e freddezza, così come lui non riesce a divincolarsi dal rapporto con William, simbolo di una massoneria che avanza e alla quale non sembra convenire opporsi, ma anzi va chinato il capo e si deve sottostare persino a punizioni corporali, quando si sbaglia.
Killers of the flower moon è un vero capolavoro, di coraggio e di cinematografia, che racconta il ventesimo secolo come pochi altri sono riusciti a fare, e in questo lo aiuta un lavoro tecnico a dir poco sublime, oltre a una sceneggiatura impeccabile, che fa dell’opera una sorta di romanzo in scena. Molto probabilmente, al di là delle numerose e e inevitabili nomination, non sarà il film che farà incetta di premi agli Oscar, anzi mi stupirei se dovesse riceverne più di un paio, ma questo a noi importa poco. Quello che conta è che ancora una volta Scorsese è riuscito a stupirci.