Di quando sono andato nel Medioevo e mi sono allontanato solo poche ore per scrivere al computer.
Ultimamente, ovvero negli ultimi due anni, il mercato videoludico, ma soprattutto il suo pubblico, riserva sorprese. Mi avessero detto qualche anno fa che per settimane non si sarebbe parlato di altro che del seguito di Nier, o di un Persona 5, avrei invitato il mio interlocutore a smetterla con il vino. Si tratta certamente di titoli tutt’ora di nicchia, che però sono stati al centro della conversazione per più tempo, e interessando variegate fasce di pubblico, di quanto non avrei mai immaginato (non avrei immaginato neanche che se ne parlasse al di fuori di ambienti dedicati, in realtà), e allo stesso tempo si tratta di giochi che hanno saputo aggiungere qualcosa di importante ad un’industria che, almeno per quanto riguarda i tripla A, sembrava un po’ stantia. Non mi stupisce quindi più di tanto che, in questo inizio 2018 dominato da Monster Hunter World e Dragon Ball FighterZ (entrambi titoli dall’anima non propriamente mainstream), un altro dei giochi del momento sia Kingdom Come Deliverance, un RPG fortemente simulativo che segue a testa e col paraocchi la precisa visione del suo autore, senza nulla concedere agli “agi” a cui siamo abituati in questi anni.
Questa introduzione serve a dirvi che, in caso non fosse chiaro, Kingdom Come Deliverance non è un gioco per tutti, non è accessibile, e il fatto che ne parlino e ci stiano giocando tutti non significa che il gioco incontri davvero i gusti dei più. E questo non è un difetto, assolutamente, ma è anzi il primo merito di un gioco che vuole dire la sua, a modo suo, nonostante i valori produttivi siano inversamente proporzionali alle ambizioni di Warhorse. Probabilmente ci vorranno mesi di patch per renderlo il gioco che dovrebbe essere, ma non sono qui a dare un giudizio definitivo, perché come avrete letto nel titolo si tratta delle prime impressioni in vista della recensione, che arriverà tra qualche giorno. Prime impressioni su circa 20 ore giocate, per darvi la proporzione della dimensione di KCD, dopo le quali è ancora impossibile tirare una linea, avendo la sensazione di aver scalfito la punta del proverbiale iceberg.
Questo perché Kingdom Come Deliverance è un gioco soverchiante, che mette di fronte ad un mondo grande, non tanto per estensione quanto per complessità, con poche indicazioni e tante, tantissime regole, come è giusto che sia in una riproduzione storica della società medioevale. Regole per noi, gente degli anni 2000, insensate, ma che dobbiamo rispettare per poter vivere in quella realtà. In fondo è soprattutto questo il gioco di ruolo, l’interpretazione di un personaggio. Siamo nei panni di Henry, figlio di un fabbro a cui viene uccisa la famiglia nelle prime ore di gioco. Come è logico che sia non sappiamo maneggiare una spada o un arco, siamo analfabeti, non sappiamo fare un unguento né cucire un vestito. Insomma, siamo effettivamente parte del popolino del 1400. Non aspettatevi di prendere una spada e averla vinta contro un soldato, e non pensate di andare a parlare con un nobile e dirgli quello che pensate, magari vestiti male e sporchi. Ogni elemento della vita medioevale è stato preso in considerazione durante lo sviluppo, per restituire un RPG pesante, che richiede al giocatore di adeguarsi al mondo in cui viene posto, seppure non supinamente. Le possibilità di approccio, in queste prime ore, si sono rivelate variegate in ogni situazione, ognuna con le proprie conseguenze. Conseguenze anche pesanti e irreversibili, spesso e volentieri, ma anche perfettamente calate nella logica di un gioco che grazie ad un sistema di salvataggio farraginoso, ma anche sensato e coerente agli intenti degli sviluppatori, obbliga a ragionare ogni azione e ad accettare i propri errori. Facciamo una parentesi: KCD salva da solo agli snodi principali delle missioni, e mette a disposizione dei consumabili utili a salvare quando volete, ma costosi. Questo significa che spesso le cose non andranno come volete voi, o come vi eravate programmati.
Quindi potete o caricare un salvataggio vecchio anche di un’ora, o accettare che avete sbagliato e continuare, dal momento che il gioco non vi da game over (non sempre, almeno) quando non raggiungete un obbiettivo, ma prende semplicemente un’altra via. Questo rende il tutto più realistico, anche se si sovrappone ad un sistema che avrebbe senso nel mondo reale, ma al quale non siamo abituati in un gioco. Un esempio: se un nobile locale vi dice di uscire nel cortile e parlare con un militare d’alto grado, voi uscite e ci parlate. Non è pensabile che nel 1400 una qualsiasi carica pubblica stia giorni ad aspettare che il figlio di un fabbro gli vada a parlare, fermo in una piazza, giusto? Così è in Kingdom Come. Certo, esistono spazi lasciati al giocatore per portare avanti le subquest, o per esplorare liberamente, ma anche queste saranno scandite dal passare del tempo: capita che per avanzare in una missione bisogna essere in un punto in un orario preciso, così come se dovete dare dei soldi a qualcuno è meglio che vi sbrighiate. Il ciclo giorno notte, e quindi il susseguirsi delle giornate, trova finalmente una giustificazione diversa dal “di notte sei meno visibile”.
Perché vi ho raccontato queste cose? Perché spesso si perde di vista cosa significa creare un mondo virtuale sensato, con una logica reale e una libertà di movimento che non sia il “vai per boschi a cercare grotte nascoste” quanto una libertà nell’approccio a mondo di gioco. Quello che vuole dirvi questo articolo è, a prescindere dal voto che troverete nella recensione, cosa vi aspetta nella Boemia di KCD. Perché parliamo appunto di un gioco impegnativo, che pretende la vostra attenzione, vuole che seguiate le sue regole invitandovi però anche a violarle. KCD vi chiede di sedervi di fronte alla TV per ore, immergendovi nella vita medioevale completamente, per capire con pazienza e curiosità la situazione sociale e politica dell’epoca, partendo dal nulla per plasmare il futuro di Henry, facendo sbattere le vostre ambizioni da cavaliere difensore della Croce contro una realtà che potrebbe obbligarvi a rubare per mangiare, o a cedere all’alcool per ottenere informazioni. In KCD non c’è l’eroe senza macchia, nonostante si possa provare ad esserlo.
Questa ricerca di veridicità si ritrova anche nel gameplay vero e proprio, con statistiche che ad esempio ci segnalano quanto siamo appariscenti, importante in una società “bigotta” (diremmo ora), soprattutto quando si vuole passare inosservati, che si affiancano alle più canoniche fame e bisogno di dormire; anche il sistema di combattimento, macchinoso e lento, rimanda alla scherma medioevale, richiedendo un attento uso delle posizioni di combattimento, del movimento, della schivata e infine un timing che deve essere puntuale nella parata, con attenzione ai punti colpiti , alle ferite da sanguinamento e alla differenza nelle armi se si stanno combattendo nemici con o senza armatura. Di tutti questi dettagli, del funzionamento delle statistiche, divise tra punti che si accumulano effettuando azioni à la The Elder Scrolls e talenti apprendibili a scelta del giocatore, e del sistema di combattimento, ve ne parlerò più approfonditamente nella recensione, per ora vi basti sapere che, anche sotto questo profilo, il gioco è stato realizzato guardando alla fedeltà storica prima che alla fruibilità da parte di tutti, e che quindi, anche qui, è richiesta dedizione e tanta voglia di superare momenti ostici inizialmente.
Ah, avete letto di una quantità improbabile di bug in giro per la rete? Sì, è tutto vero.