Città Murata di Kowloon e cultura pop sono legate in tantissime opere. Eccone alcune.
La storia dell’isola di Hong Kong è varia e affascinante. Da millenni la località è un porto strategico conteso tra le grandi potenze mondiali e ha visto avvicendarsi al potere innumerevoli schieramenti, ufficiali e meno ufficiali. Ancora oggi la zona si caratterizza per la sua peculiare instabilità politica. C’è stato un luogo all’interno del territorio di Hong Kong, però, persino più speciale rispetto all’isola: la Città Murata di Kowloon, un ex fortino militare dalla storia travagliata che per una grossa fetta del Novecento si è trasformato nell’agglomerato urbano più densamente popolato del mondo. Kowloon e cultura pop sono da sempre legate a doppio filo. La sua architettura fantasiosa e labirintica sembra fatta apposta per diventare lo scenario di storie incredibili, come alcune che andremo ad analizzare nel corso di questo viaggio.
Kowloon e cultura pop: una storia da film
La storia di Kowloon ha tutte le caratteristiche per essere trasposta in un film di genere epico storico. La sua epopea inizia intorno all’anno Mille, quando nella zona nasce il primo insediamento sotto la dinastia cinese dei Son.
Gli abitanti prosperano grazie al mercato del sale, che li avvia verso secoli di vita tranquilla. I problemi cominciano ad arrivare nel 1841 con l’occupazione della zona di Hong Kong da parte degli Inglesi, che sei anni più tardi completano le mura del fortino che si trasformerà nella Città Murata. Nel 1898 la Convenzione per l’Estensione del Territorio di Hong Kong conferisce il controllo della struttura militare alla Cina, che però è costretta a cederla solo pochi mesi dopo.
Nel corso del Novecento Kowloon assume pian piano le fattezze che l’hanno resa famosa: una terra di nessuno, snobbata dalle grandi potenze e dalla legge, governata principalmente dalle Triadi della mafia cinese. Il suo territorio inizia a riempirsi di profughi in fuga dalle Guerre Mondiali, dal conflitto Sino-giapponese e dalla violenta Rivoluzione Culturale di Mao Zedong. All’apice della sua storia la Città murata di Kowloon, appena grande come quattro campi da calcio, ospita un numero imprecisato che va dai 33.000 ai 50.000 abitanti secondo le diverse fonti, pari a 1,2 milioni di anime per chilometro quadrato: la zona più densamente popolata del mondo. Nei primi anni Duemila Inghilterra e Cina decidono di mettere la parola fine sulla città, che viene rasa al suolo tra il 2003 e il 2004. Gli abitanti vengono ricollocati in case popolari costruite appositamente. Come vedremo, anche questa sorta di gentrificazione forzata contribuirà a instaurare un legame tra Kowloon e cultura pop.
Kowloon e cultura pop: architettura distopica
Uno degli aspetti che più hanno contribuito a rinsaldare il legame tra Kowloon e cultura pop è certamente la sua particolare architettura, che costituisce un modello unico e irripetibile. La città non ha mai potuto espandersi oltre le mura del vecchio fortino dell’Ottocento e, non trovando quindi sfogo in larghezza, si è sviluppata in altezza.
Le costruzioni contano decine di piani e sfruttano ogni centimetro disponibile, riducendo le vie a vicoli molto stretti a cui spesso è negata la luce del sole. I cultori del fai da te dovrebbero poi vedere la Città Murata come un capolavoro assoluto e un modello da imitare, dato che è stata tirata su senza l’aiuto di un solo ingegnere. Gli oltre 300 edifici sono composti di appartamenti uno diverso dall’altro, con i piani superiori che possono sporgere rispetto a quelli inferiori. Un altro elemento che ha avvicinato Kowloon e cultura pop è la natura claustrofobica del posto: le vie sono sempre buie e molte abitazioni sono sprovviste di finestre e interconnesse con un sistema di corridoi simili a quelli di una conigliera.
L’ultima grande ispirazione per i narratori è rappresentata dall’assenza totale di legge, che consentiva ai criminali di prosperare e agli esercizi commerciali di non rispettare gli standard sanitari. Alcune testimonianze di ex abitanti parlano di una Città Murata servita in tutto da otto tubazioni che fungevano da sistema fognario. Bastava qualche ora di pioggia per avere l’acqua alle ginocchia e veder fluttuare una grande quantità di immondizia per le strade. In poche parole, uno scenario perfetto per le distopie.
Kowloon e cultura pop: gli abitanti
Per comprendere il profondo legame che intercorre tra Kowloon e cultura pop è importante conoscere chi ci ha abitato. Oltre ai criminali, che potevano semplicemente sparire tra i vicoli della città e seminare la polizia ogni volta che volevano, la maggior parte degli abitanti era composta da profughi.
Novecento non è stato parco in fatto di guerre e le diverse provenienze dei rifugiati hanno contribuito a raggiungere un livello di integrazione ancora oggi eguagliato da poche altre realtà. Kowloon accoglieva anche moltissime famiglie povere, anche numerose. Chiunque volesse un tetto a poco prezzo poteva trovare il proprio posto in una città che non faceva domande indiscrete e non chiedeva a nessuno la carta d’identità. Gli abitanti ricordano la vita nella Città Murata soprattutto per la cooperazione e la solidarietà che caratterizzavano la comunità: i minuscoli appartamenti erano aperti tutto il giorno, si mangiava insieme alle altre famiglie e si tenevano d’occhio i figli degli altri. I bambini crescevano in grandi gruppi saltando a piedi nudi da un tetto all’altro, nel vuoto. Lo spirito, ancor più di storia e architettura, ha reso Kowloon un luogo unico.
Kowloon e cultura pop: i videogiochi
Kowloon’s Gate (PS1, 1997)
Dato il legame molto forte tra Kowloon e cultura pop, è solo questione di tempo prima che il mondo dei videogiochi si accorga delle enormi potenzialità del luogo. Kowloon’s Gate è un gioco d’avventura in prima persona mai pubblicato fuori dal Giappone nonostante il grande successo riscosso in patria.
Tra tutti gli aspetti affascinanti della città, quello maggiormente sfruttato dagli sviluppatori è la sua natura labirintica: il protagonista si muove tra vicoli bui e corridoi sinistri, per poi fermarsi a ogni bivio e aspettare l’input del giocatore, il quale sceglie con una freccia la prossima direzione. L’obiettivo è incontrare personaggi che custodiscono segreti e trovare oggetti per proseguire l’avventura. Uscito in un’epoca in cui i punta e clicca si stavano già avviando sul viale del tramonto, Kowloon’s Gate trova il suo punto di forza più notevole nell’atmosfera.
La colonna sonora, anche se un po’ ripetitiva, è creepy al punto giusto e un utilizzo molto parsimonioso della luce rende l’ambientazione fedelmente claustrofobica. Ad alimentare i brividi lungo la schiena del giocatore ci pensa poi l’inizio del gioco, in cui il protagonista viene buttato nella mischia senza alcuna indicazione, disorientato come un pesce fuor d’acqua. Kowloon’s Gate vanta anche una versione rimasterizzata per PlayStation VR, uscita nel 2017 e sviluppata dalla stessa software house dell’originale.
Shenmue II (PS2, 2001)
In qualsiasi articolo che parli di Kowloon e cultura pop non può mancare una menzione a Shenmue, saga d’avventura nipponica che si gioca il primato del successo a livello mondiale con Yakuza. Il secondo episodio, in particolare, dedica un intero capitolo alla Città Murata, anche se nella trasposizione manca il proverbiale muro.
Il disorientamento la fa da padrone sin dall’arrivo del protagonista Ryo: l’accoglienza che gli abitanti gli riservano lo fa subito sentire nel posto sbagliato, marcando una notevole differenza con l’inclusività che invece ha contraddistinto la Kowloon reale. In Shenmue II l’agglomerato urbano è dominato dall’organizzazione Chiyou, un chiaro riferimento alle triadi della mafia cinese esistite davvero. L’aspetto più interessante, però, è la varietà delle ambientazioni, che sono esplorabili per una percentuale che si avvicina al 100%. Per mostrare le variazioni da una stanza all’altra il gioco si serve di un RNG (Random Number Generator), una sorta di calcolatore sempre in funzione che cambia continuamente colore e disposizione dei mobili con l’intento di renderle tutte diverse.
La Kowloon vista con gli occhi di Ryo presenta anche notevoli discrepanze rispetto a quella reale, a cominciare dal fatto che si trova su un’altura. La città è inoltre più edulcorata, con strade più larghe e soleggiate, spazi aperti e decisamente più puliti.
Kowloon e cultura pop: i manga
Ghost in the Shell (1989)
Un’altra citazione ovvia e doverosa in un articolo su Kowloon e cultura pop è quella di Ghost in the Shell, che riprende soprattutto lo sviluppo verticale della città. I grattacieli che oscurano il sole e i minuscoli appartamenti sono diventati un marchio di fabbrica del genere cyberpunk, che fa dell’atmosfera opprimente una delle proprie cifre stilistiche più importanti.
Il manga di Masamune Shirow e, in misura ancora maggiore, il film del 1995 di Oshii Mamoru, mostrano grande cura nella creazione e nei dettagli delle insegne luminose che hanno caratterizzato la Kowloon reale. Le opere degli artisti nipponici le rendono ancora più sgargianti e aggiungono l’animazione per dare quel gusto futuristico che non guasta mai. Se si osservano con attenzione le fotografie dei bassifondi della Città Murata si nota subito anche il grande numero di tubi e cavi elettrici che corrono per i corridoi, a volte illuminandoli con le scintille.
Ghost in the Shell, che deve una grande fetta del proprio fascino ai parallelismi tra la configurazione della mente di umani e robot e gli ambienti esterni, utilizza tubi e cavi come metafora delle sinapsi e dei circuiti. Nonostante la vera Kowloon fosse un modello di aggregazione portata dal sovrappopolamento, il cyberpunk sceglie la direzione opposta: la grande città porta i propri abitanti all’alienazione e alla spersonalizzazione. L’individuo si perde tra le vie e fatica a ritrovare se stesso.
Black Joke (2008 – in corso)
Lasciamo per un attimo il cyberpunk per andare a scovare un altro punto di contatto tra Kowloon e cultura pop, ovvero l’assenza di legge.
Black Joke è un adrenalinico seinen costruito su personaggi che appartengono alla categoria che più di tutte prospera in un luogo senza regole: i criminali. Anche se situata al largo del Giappone, l’isola di Neon presenta diverse analogie con Kowloon, a cominciare dall’occupazione straniera. La terra del Sol Levante è il cinquantunesimo stato degli USA e Neon è l’unico luogo in tutti gli Stati Uniti in cui prostituzione e gioco d’azzardo sono legali. Una zona franca in cui criminali e imprenditori senza scrupoli possono fare soldi a palate, ma anche un rifugio per ex soldati rinnegati come i protagonisti Kira Kiyoshi e Kodama Douji. Un posto in cui chiunque ha la possibilità di fare fortuna, a patto che non abbia paura di sporcarsi le mani.
Un altro aspetto comune alla Città Murata è la presenza della mafia, che controlla di fatto l’isola. La malavita organizzata regna e Cinesi, Italiani e Giapponesi sono in guerra perpetua. L’opera sceneggiata da Koike Rintaro e disegnata da Taguchi Masayuki differenzia però Neon da Kowloon per quanto riguarda l’estrazione sociale di chi ci abita: l’isola di Black Joke è popolata soprattutto da persone ricche che vivono nel lusso più sfrenato.
Kowloon e cultura pop: i film
Kakurenbo (2005)
Il legame tra Kowloon e cultura pop non può che toccare anche la cinematografia, specialmente quella animata e made in Japan. Il corto di Morita Shuuhei gioca con la contrapposizione tra luce e ombra, motore principale delle vicende del protagonista, un bambino che partecipa a una versione particolare del nascondino per ritrovare la sorella scomparsa. Il gioco si chiama Otokoyo e attira molti bambini in una città abbandonata e per lo più buia,
come Kowloon nei suoi ultimi anni. L’influenza della Città Murata è evidente anche nella composizione dell’architettura, che predilige lo sviluppo verticale e la natura labirintica delle strade. Nell’oscurità si annidano i demoni, pronti a rapire i bambini alla prima distrazione per trasformarli in una fonte di energia con cui alimentare un’enorme batteria al centro della città. Kakurenbo è una grande metafora dei pericoli della gentrificazione, un fenomeno che gli ex abitanti della Kowloon reale conoscono molto bene. Come i demoni rapiscono i bimbi nell’oscurità, così la gentrificazione ruba l’innocenza della popolazione e la naturalezza del paesaggio per restituire un’ambientazione più sicura, ma anche più standardizzata e meno libera.
Downsizing (2017)
Il doppio filo che lega Kowloon e cultura pop nel cinema non si è allentato con il passare degli anni, uscendo anzi dai confini dell’Oriente per ispirare persino Hollywood. Downsizing parte da un’idea semplicissima, per quanto estremamente difficile da realizzare: se l’uomo fosse alto 1:2000 del normale consumerebbe molte meno risorse.
Il protagonista Paul Safranek decide su questa base di sottoporsi all’esperimento di miniaturizzazione e si trasferisce in una città costruita appositamente dove vive nel lusso con tutti i suoi simili. Una serie di circostanze lo porta però nel distretto più povero, che sembra preso direttamente dalle fotografie di Kowloon: stanze minuscole e sporche, corridoi interminabili, costruzioni improvvisate e pericolanti, ma soprattutto tanta, tantissima gente. Il palazzo è sovrappopolato e i suoi abitanti assomigliano, per dimensioni e laboriosità, alle formiche.
Un altro aspetto che lega questo frangente di Downsizing alla Città Murata è l’estrazione sociale dei cittadini, tutti poveri, criminali o dissidenti politici come la coprotagonista Gong Jiang. La comunità è molto coesa e collaborativa e passa la maggior parte del tempo negli spazi comuni più che nei minuscoli appartamenti. Lo spirito della vera Kowloon riecheggia nell’enorme costruzione, in cui tutti si aiutano e si conoscono personalmente.
Kowloon e cultura pop sono legate da sempre. Claustrofobia, disorientamento, oscurità; ma anche coesione, inclusività e vita comunitaria sana. La Città Murata è stata una realtà unica e probabilmente irripetibile e siamo sicuri che le opere che appaiono in questo articolo non saranno le ultime a rinverdire il suo ricordo.