Direzione e ragioni dell’ennesima grande svolta del re degli MMORPG
on è un mistero che gli ultimi anni siano stati a dir poco burrascosi per Blizzard Entertainment, e per World of Warcraft in particolare. Lo scandalo che ha travolto l’azienda nel luglio del 2021, portando alla luce anni di abusi e molestie, non ha per fortuna ancora esaurito la propria forza polemica, ma ha anzi continuato a nutrire una diffusa presa di coscienza da parte dei dipendenti Activision Blizzard, stimolando risposte anche da altri studi e continuando a sensibilizzare l’opinione pubblica. Ne sono discesi scioperi, spinte verso la sindacalizzazione, dimissioni e licenziamenti di volti storici dell’azienda, in un terremoto che ha finito con lo scuotere persino il trono del CEO Bobby Kotick. A questo si accompagnano le difficoltà dovute alla pandemia da SARS-CoV-2, una serie di fallimenti comunicativi che hanno a poco a poco deteriorato la presa di Blizzard sull’umore degli appassionati, travolto dall’impeto di una negatività che ha perso interesse per le proprie ragioni e si è fatta moda, per tacere di due espansioni, Battle for Azeroth e Shadowlands, che hanno fatto molta fatica ad incontrare il favore del pubblico.
Mi rendo conto che nel contesto dell’annuncio di World of Warcraft: Dragonflight, del nuovo gioco mobile Arclight Rumble, della beta di Overwatch 2 e delle novità su Diablo, un discorso che muova da una premessa così negativa potrebbe apparire un po’ anticlimatico, in contrasto con l’aria di distesa celebrazione che tutti vorremmo respirare dopo tante turbolenze. Credo però che proprio per questo motivo sia importante partire da qui: alcune cose stanno cambiando in Blizzard, e moltissime ne stanno cambiando in World of Warcraft. Ogni cambiamento però è animato da una contraddizione che tenta di risolversi, una lotta fra trazioni contrarie, e se si vuole capire il cambiamento è necessario guardare anzitutto al conflitto in cui quello trova genesi. È di questo che voglio trattare qui, delle ragioni e dei modi della metamorfosi di Warcraft, anziché stilare un elenco esaustivo delle proprietà di Dragonflight, poiché quel fine sarebbe meglio servito da una breve visita al sito web ufficiale dell’espansione.
Il cambiamento non è un concetto nuovo per World of Warcraft. Questo celacanto della storia videoludica ne ha viste tante nel corso degli anni, e del resto un successo così duraturo, in un mercato così rapido e volubile, non sarebbe possibile senza una certa disposizione alla proteiformità, al punto che me la sento di notare che il “WoW 2” da molti auspicato e desiderato, è in realtà già uscito. Anzi, oggi stiamo assistendo al tramonto di quello che potremmo chiamare “WoW 3”, nonché alla nascita di qualcosa la cui novità non si esaurisce nel mero elenco delle caratteristiche della prossima espansione, né si limita alla nuova promettente impresa per dispositivi portatili. È per questo motivo che la sto prendendo così larga: Warcraft si sta reinventando in modo radicale, ancorché non repentino, e nel reinventarsi sta facendo i conti con una community parzialmente disillusa, con una direzione aziendale scopertamente classista e predatoria, con l’insorgere di voci di protesta, di una cultura di sviluppo più progressista, più inclusiva, nettamente contrapposta alla cultura di abuso che era stata per tanto tempo dominante, e che però a propria volta non aveva impedito a Warcraft di essere un franchise relativamente di sinistra, capace di veicolare ideali anti-razzisti e anti-imperialisti, di giocare narrativamente sulla lotta di classe per indurre il giocatore a simpatizzare verso le categorie oppresse, di mettere personaggi femminili al centro delle narrazioni in ruoli tutt’altro che subalterni.
Come si è già detto, queste contraddizioni sono importanti perché ci informano, almeno in parte, sulla natura dei cambiamenti del gioco, ma ci permettono anche di capire meglio come questi si rapportino con gli umori della community. Anche qui la contraddittorietà la fa da padrona: quella stessa cultura maschilista e conservatrice che nell’ultimo anno ha fatto aggrottare tante fronti non è in fin dei conti altro che una propaggine, nel lungo solco del Gamergate, di una arretratezza che abbraccia la società in modi molto più ampi e su molti altri livelli. Ed ecco che se da una parte la condanna verso i molestatori ha risuonato forte e decisa in ogni angolo della rete, dall’altra un numero considerevole di giocatori ha deciso di indirizzare il proprio sdegno proprio verso quelle dimostrazioni di inclusività, quei cambiamenti in meglio che gli sviluppatori hanno messo in moto per riprendersi il proprio spazio, e riempirlo con una cultura migliore. L’indignazione per lo scandalo diventa quindi un pretesto per criticare l’azienda woke, le cui dipendenti avrebbero troppi capelli blu. E come si può pensare che questo pandemonio di umori bifronti non porti la propria eco anche nei discorsi sul gioco, sulla narrativa, sui sistemi, e così via? Del resto una delle critiche più ricorrenti al direttore narrativo, Steve Danuser, è quella di essere un simp verso quello stesso personaggio femminile che durante Cataclysm era stato chiamato “bitch” da Garrosh, l’esplicita analogia di Mussolini, quello che secondo parte della community “did nothing wrong”, riecheggiando il divertentissimo e certamente ironico meme su Hitler.
Ma andiamo con ordine.
Di scollature e ciotole di frutta
L’anno scorso, una bella mattina di settembre, gli inquilini di Azeroth si sono alzati, hanno aperto Reddit anziché WoW e hanno così scoperto come alcuni dei dipinti che nel gioco ritraevano personaggi femminili fossero diventati nature morte: in luogo di una donna sdraiata sul fianco ora sulle pareti delle locande troneggiava una ciotola di agrumi. Altri soggetti avevano allacciato un paio di bottoni. Quel “bitch” cui accennavo prima era scomparso. Più avanti è saltato fuori che molte barzellette e dialoghi amoreggianti erano stati rimossi. Si andava da facezie a sfondo razzista all’omofobia, passando per le battute sulla violenza sessuale, perché in WoW non ci facciamo mancare niente. Superfluo rilevare che la reazione più diffusa è stata l’ilarità, seguita dall’indignazione: la cancel culture stava colpendo ancora. Personalmente non credo che linee di dialogo come “Omogeneizzato? Neanche per scherzo, mi piacciono le ragazze”, oppure “Eccoti un drink, sei pronta adesso?” siano una buona idea in qualsiasi videogioco, tantomeno in quello della famigerata Cosby Suite. Ciò che in questa sede ci interessa, ad ogni modo, è che gli sviluppatori stavano scegliendo di rimuovere dal proprio videogioco ogni riferimento ad una cultura di abuso, di molestia, di sopraffazione che era dolorosa e umiliante per loro stessi, mentre una parte considerevole della community sceglieva invece di fare loro resistenza. Eppure non dovrebbe essere difficile capire perché, anche a prescindere dallo scandalo, una sviluppatrice trans possa trovare indesiderabile che con il comando “/joke” il proprio personaggio racconti barzellette sugli estrogeni.
In generale credo si possa dire che il team si è posto il problema di costruire intorno a WoW una cultura più accogliente e inclusiva, e lo sta facendo anche a costo di inimicarsi quella fetta di pubblico a cui la giustizia sociale proprio non piace. L’esempio più lampante di questa direzione sono alcune righe di testo estratte pochi giorni fa dall’ultima build della patch 9.2.5, che richiederebbero ai giocatori di accettare quello che viene chiamato “contratto sociale”. Si va dal suggerimento di essere cortese ed amichevole, o di offrire aiuto agli altri giocatori, al divieto categorico di fare commenti negativi sull’identità di genere o sull’abilità altrui. Le uniche opzioni disponibili sono “accetta” ed “esci dal gioco”.
La rotta per il futuro di World of Warcraft è dunque stabilita, nonostante il contenzioso legale ancora in corso, e punta nella direzione dell’intolleranza verso gli intolleranti. Resta da verificare se questi cambiamenti, che li si giudichi innocui o eccellenti, saranno sostenuti da un adeguato sforzo di moderazione, e dallo staff attento e qualificato che questa richiederebbe.
Di draghi e di tradizioni
Su una nota più lieta, una delle promesse del futuro di Warcraft, portataci dal recente annuncio della nuova espansione, è un ritorno alla terra e alla tradizione, in un certo senso. Se Shadowlands ci aveva portati nell’aldilà, a tentare di salvare e migliorare l’ordine cosmico che regola il flusso delle anime dei defunti, mettendo la parola fine alla storia del Re dei Lich, tra luoghi e popoli decisamente poco “warcraftiani”, Dragonflight ci ricondurrà a calcare gli amati sentieri di Azeroth, ed in particolare ci lascerà scoprire le agognate Isole dei Draghi, la terra ancestrale che era stata tagliata dalla versione originale di World of Warcraft prima ancora che questa raggiungesse la beta, e i cui misteri potremo finalmente indagare, dopo diciotto anni di attesa. Tornano gli Aspetti Draconici, con il ritrovato compito di proteggere Azeroth, e torna anche l’instabilità degli elementi, che si risvegliano e animano la terra con la loro magia primordiale. Impossibile non tracciare con Cataclysm un parallelismo che ha in realtà il sapore dell’antinomia: se Shadowlands si era agganciata al tema di Wrath of the Lich King, così Dragonflight sembra riprendere quello della terza storica espansione, ribaltandolo. La fine dei draghi si trasforma nel loro ritorno, la rottura del mondo diventa la sua rinascita, e se Cataclysm aveva incarnato il primo importante distanziamento dalla tradizione classica, Dragonflight sembra voler rappresentare un momento di riconciliazione: tra draghi, centauri, tuskarr e gnoll, l’intento è chiaramente quello di far sentire il giocatore di nuovo a casa, immerso tra i soffici braccioli della comoda avventura high fantasy cui si era affezionato tanti anni fa. Non è mia intenzione lamentarmene.
Mentirei se dicessi che questo genere di incipit non ha risvegliato il mio interesse, ma a dirla tutta lo ha fatto anche in contrasto con le presentazioni precedenti: il filmati introduttivi di World of Warcraft tendono, con pochissime eccezioni, a presentare ed essere incentrati sulla prossima grande minaccia: Illidan, Arthas, Alamorte, la Legione Infuocata, la fazione opposta. Non solo, traggono anche sempre a piene mani dal conflitto per creare tensione, e persino il più pacifista dei trailer, quello di Mists of Pandaria, era un lungo combattimento che culminava nella legittimazione della violenza per preservare l’armonia, una sorta di para bellum che riecheggia anche nel trailer di Legion. Qui invece, hanno scherzato in molti, c’è solo un tipo roccioso che deve aggiustare il wi-fi, prima di darsi ad un giretto panoramico mentre Alexstrasza ci parla di un mondo in guarigione. Ed ecco che nella familiarità è emerso anche un importante elemento di divergenza. Gli stessi sviluppatori ci hanno tenuto a sottolineare che questa volta non saremo impegnati in una spedizione militare, ma accompagneremo scienziati e coloni civili.
Non ci resta che scoprire se quella familiarità sia reale, o se invece faccia da preludio all’ennesima sovversione delle aspettative. Del resto non sarebbe la prima volta che Blizzard nasconde, dietro un tema rassicurante, delle inversioni narrative volte a causare attrito e sconcerto nella community. O forse Dragonflight finirà con il testimoniarci quanto sia difficile proporre novità ad un pubblico che ormai esiste da vent’anni, e che è disperatamente innamorato della propria infanzia, senza desiderare l’incursione del più remoto guizzo di imprevedibilità, di dissonanza, di discussione.
Di sistemi e di manipolazioni
Per quanta importanza la narrativa di Warcraft rivesta agli occhi dei fan, le cesure più importanti nella storia del nostro MMORPG sono sempre marcate da drastici cambiamenti ai sistemi di gioco, o comunque da cambiamenti che hanno ripercussioni durature, che si tratti dell’introduzione del group finder, della rimozione degli alberi dei talenti, della nascita delle missioni mondiali, e così via. Alcuni di questi cambiamenti sono stati accettati dalla community e costituiscono ora una parte essenziale dell’identità del gioco, come nel caso del sistema di transmogrificazione o delle Mythic+. Altri cambiamenti hanno avuto meno fortuna, e negli anni sono andati raccogliendo attorno a sé uno spiccato malcontento, un malcontento di cui è necessario prendere atto, anche se si è tra quanti non hanno trovato molte ragioni di insoddisfazione, come il sottoscritto. Penso al sistema di leggendarie completamente randomiche o alla progressione degli artefatti di Legion, penso al titanforging, che garantiva un incremento alle statistiche più o meno casuale, penso all’armatura di azerite di Battle for Azeroth, con il suo grind di AP, penso ai poteri delle congreghe e al sistema di conduit di Shadowlands.
Quello che tutti questi sistemi hanno in comune è che rappresentano dei modelli di progressione “in prestito”, che introducono meccanismi di avanzamento ogni volta diversi ed estremamente volatili: il progresso del personaggio non è quindi permanente, né è vincolato soltanto ad equipaggiamento e scelta dei talenti, ma dipende in larghissima parte da meccanismi destinati a svanire nel giro di una patch, o al più di un’espansione. Il risultato è che finché sono attivi la progressione è più astratta, più cervellotica, e nel momento in cui spariscono, all’apice della crescita, privano il giocatore di tutto quello per cui ha lavorato, lasciandolo con la speranza che il prossimo sistema temporaneo lo riporti ad un gradimento del gioco almeno equivalente a quello che è andato perso. È qui che va ad innestarsi quello che è forse il più grande cambiamento di Dragonflight: la rinuncia, di fatto, al concetto di potere in prestito, per lasciare spazio ad un rifacimento totale del sistema dei talenti, che torneranno ad esprimersi in tradizionali alberi di abilità, uno principale per la classe e poi uno per ogni specializzazione, in modo che la crescita del personaggio sia qualcosa di permanente, e che il giocatore non debba passare l’espansione a rincorrere sistemi sempre cangianti. O almeno non troppi. Di certo si tratta di una virata verso un sistema più schietto e leggibile, ma anche potenzialmente più complesso e onesto di quello attuale. La speranza maggiore però è che stia iniziando un’epoca in cui il rapporto tra sforzo e ricompensa generi minore attrito, o almeno una minore sensazione di attrito. È qualcosa che abbiamo già iniziato ad osservare nel design della patch 9.2, a Zereth Mortis, auspicandoci che questa nuova epoca vada avanti il più a lungo possibile.
Merita una menzione veloce anche il rifacimento dell’interfaccia, che diventerà finalmente modulare senza bisogno di addon. Ne merita sicuramente una il sistema di crafting, che ora acquisterà specializzazioni, equipaggiamento, un sistema di qualità della produzione, il tutto volto ad accentuare il potenziale ruolistico della professione e la necessità di collaborare, farsi un nome, costruirsi una clientela. Ed è interessantissima l’introduzione del volo a dorso di drago, che sarà influenzato da dinamiche fisiche simili a quelle già viste in Guild Wars 2. In tutti questi casi si tratta di un lavoro sui sistemi essenziali del gioco, rielaborare le fondamenta in modo che siano espandibili anziché continuare ad aggiungere sovrastrutture su sistemi di dieci anni fa.
Di torrette e cellulari
Ogni tanto fa bene ricordarsi che Warcraft non è solo un MMORPG: è un fenomeno culturale che ha dimostrato una rara capacità di penetrare nella cultura di massa, molto oltre la portata di un semplice videogioco, per quanto storico e popolare esso sia. Warcraft è i suoi libri, i fumetti, il film, i raduni, le fanfiction e sì, anche i videogiochi mobile. Ormai sono passati otto anni dal lancio di Hearthstone, che è stato in grado di portarsi alla testa del proprio genere, diventandone negli anni un pilastro ineludibile. Sembra che Blizzard, dopo aver promesso la rimozione del controverso Tavolo del Comandante da WoW (e relativa integrazione per dispositivi portatili), ci stia riprovando con Arclight Rumble. Per come si è presentato ha tutta l’aria di essere fortemente ispirato a Clash Royale, con importanti elementi RTS, gilde, spedizioni, incursioni, elementi gacha e un focus sul PvE. È presto per esprimersi in giudizi nel merito, ma un prodotto con queste caratteristiche, realizzato con la cura e l’umorismo di Blizzard, può essere degno di attenzione anche per chi non è normalmente attratto da questo genere di prodotti. Personalmente non posso che dirmi felice che non si tratti di una nuova integrazione mobile per World of Warcraft, e si configuri invece come un tentativo di espandere il brand in una direzione nuova. Se poi dovesse portare sangue fresco su Azeroth, tanto meglio. Quello vecchio forse inizia a coagularsi.