Torniamo a parlare dei true crime di Netflix e lo facciamo con La ragazza nella foto (Girl in the picture), docufilm sulla agghiacciante storia di Sharon Marshall
on ci si stupisce mai delle sconfinate possibilità del male. Gli appassionati del true crime lo sanno bene, perché dagli Stati Uniti in primis, ma da tutto il resto del mondo, continua ad esserci materiale infinito per realizzare prodotti di genere, ed in questo (forse solo in questo) possiamo affermare che Netflix non sia seconda a nessuno dei propri competitor.
Negli ultimi mesi, a onor del vero, si era notata una certa flessione nella qualità dei nuovi contenuti true crime sulla piattaforma della N rossa, ma di recente il terrore è tornato a sconvolgerci, e ancora una volta grazie a prodotti made in USA.
Uno degli ultimi è il docufilm La ragazza nella foto (Girl in the picture), una storia agghiacciante che prende vita dopo la morte della ventenne Sharon Marshall, ritrovata in Oklahoma sul bordo della strada da alcuni passanti, quando era ancora in fin di vita, per poi morire in ospedale.
Quello che all’apparenza sembrava un banale incidente stradale, aprì le porte a scenari terrificanti, soprattutto quando si venne a scoprire che la vera Sharon Marshall era in realtà deceduta molti anni prima…
La regista Skye Borgman si fa carico di narrare agli spettatori una storia complessa e atroce, ripercorrendo un mistero che via via si fa sempre più fitto e in cui è da subito piuttosto chiaro un coinvolgimento attivo del marito, Clarence Floyd, un uomo molto più grande di lei. Sharon lascia un figlio di due anni, Michael, che viene affidato a una famiglia adottiva, ma quando Clarence si appella alle autorità per riaverlo con sé, emerge una nuova sconvolgente verità: Michael non è suo figlio. E Sharon Marshall non è il vero nome della donna defunta.
Ma allora chi era davvero? E Clarence Floyd si chiama realmente così?
La Borgman sbroglia via via la matassa presentandoci una narrazione fitta e piena di colpi di scena, in cui emergono rapimenti, abusi, abbandoni, omicidi, pseudonimi, e una serie lunghissima di crimini e macabre mostruosità. Quando immaginiamo che non possa esistere nulla di peggio, ecco che emergono nuovi dettagli raccapriccianti e il racconto si fa ancora più agghiacciante.
L’immagine a cui fa riferimento il titolo è quella di Sharon, a sei anni, seduta sulle ginocchia di quello che si professa suo padre, ma la piccola mantiene un’espressione triste, quasi assente. Il perché, sarà purtroppo presto svelato dal docufilm Netflix.
Quello in cui riesce il grande lavoro della Borgman, e che rende La ragazza nella foto migliore di molti altri prodotti true-crime in circolazione, è la capacità di non staccarsi mai dalla vittima, sempre in primo piano e mai subordinata ai personaggi secondari, mescolando nel modo giusto narrazione, salti temporali (coadiuvati da un ottimo montaggio), interviste e – ovviamente – fotografie.
Sono proprio gli sguardi dei protagonisti di questa vicenda a scuotere nel profondo lo spettatore, a partire da quello glaciale e impassibile di Clarence fino a quello disgustato e scioccato degli intervistati. La ragazza nella foto, anche dopo la sua visione, lascia un senso di inquietudine e tristezza che riesce persino a superare il ribrezzo per le nefandezze e la depravazione a cui abbiamo assistito.
Provando a restare un minimo distaccati, si possono ammirare le qualità della Borgman, il modo in cui è riuscita a non rendere eccessivamente labirintica una narrazione con mille incroci e linee temporali, tra una bugia e l’altra, riuscendo a coinvolgere appieno il pubblico, in particolare se amante del true-crimne. In fondo anche questo è un buon modo per omaggiare le vittime, complice anche la scelta di un finale lieve, che dopo tante mostruosità e aberrazioni, prova donare una sottile speranza.