Fra una settimana, più precisamente nei giorni 27, 28 e 29 marzo, approderà nelle sale italiane il lungometraggio animato La tartaruga rossa, presentato in anteprima al Festival di Cannes 2016 nella sezione Un Certain Regard e candidato agli Oscar come Miglior film d’animazione (e sconfitto da Zootropolis). Il film è una produzione franco-belga-giapponese e vede coinvolti diversi studi d’animazione, tra i quali spicca lo Studio Ghibli, famoso per esser stato fondato dal maestro dell’animazione e della narrazione, Hayao Miyazaki.
Come sempre in questi casi, noi di Stay Nerd ci siamo seduti in sala armati di taccuino e oggi vi raccontiamo le nostre impressioni sul film. Partiamo dalla fine: Ci è piaciuto? In linea di massima sì, anche se ci sono alcuni punti su cui non abbiamo apprezzato le scelte degli autori e del regista.
La storia racconta le peripezie di un naufrago: il film si apre con una tempesta terrificante, nella cui balìa è finito il protagonista. Nulla ci è dato sapere della sua vita prima di questo momento, tutto si apre con questa grande bufera. Le onde accompagnano il naufrago fino a una piccola isola, poco più di uno scoglio circondato da una fitta foresta di bambù. Come ci ha insegnato tutta la bibliografia e filmografica mondiale a tema isole deserte, ogni naufrago a un certo punto della sua disavventura decide di costruirsi una zattera e tentare la strada del mare. Il protagonista del film non si sottrae a questo incarico ma, anzi ci si lancia a capofitto fin dalle prime ore di permanenza sull’isola. Peccato però che la tartaruga rossa del titolo decida di mettersi sulla strada tra lui e la civiltà, frustrando le sue ambizioni a testate (letteralmente) e sfasciando puntualmente le zattere costruite col sudore della fronte.
Dopo vari tentativi di prendere il largo (tutti infruttuosi), si arriva a un confronto tra la tartaruga e il naufrago: preso da un raptus, il novello Robinson Crusoe (scusate l’ovvietà, ma dovevamo scriverlo!) avrà un duro confronto con la tartaruga, il cui esito non vi spoilereremo. Ma è in questo momento che lo spettatore si rende conto che non sta guardando l’ennesima riproposizione del tema del naufrago, bensì una metafora di qualcosa di più ampio: il passaggio dalla realtà alla metafora è rappresentato da una trasformazione pratica, che cambierà ovviamente tutte le “regole del gioco”.
La sceneggiatura è di Michael Dudok de Wit, assurto agli onori dell’animazione quando nel 2001 ha vinto l’Oscar con Father and Daughter (se vi capita, recuperatelo assolutamente!): proprio la visione di questo film da parte di Isao Takahata, uno dei co-fondatori dello Studio Ghibli, è stata la base di partenza per la collaborazione tra il regista olandese e quello giapponese. In una delle interviste fatte a de Wit, è molto interessante il punto di vista espresso dal regista su tale unione d’intenti: la libertà che gli è stata concessa, la totale indipendenza nella stesura della sceneggiatura nonostante fosse la sua prima volta al lavoro su un lungometraggio, l’attenzione ai dettagli da parte dei collaboratori e la possibilità di confrontarsi con altri autori in tutte le fasi del suo progetto, sono state fondamentali affinché il prodotto finale rispecchiasse praticamente in toto la sua idea iniziale. In poche parole, tra la prima stesura e l’opera al cinema le differenze sono marginali e tutte funzionali al linguaggio, ai temi e al tempo del film.
Questa indipendenza del linguaggio e del tratto è visibile fin dai primi momenti del film: chi si aspetta un anime o un prodotto “tipico” dello Studio Ghibli rimarrà spiazzato, perché invece assisterà a un film molto più vicino alla sensibilità e al disegno europeo (francese in particolare). Noi abbiamo intravisto il tratto e le tematiche di Corto Maltese, in qualche punto, che fra i personaggi europei è tra quelli più apprezzati sul mercato francese, non a caso.
Tra gli aspetti tecnici, ci teniamo a soffermarci sul colore: rimanendo sui toni pastello, leggermente opachi, lo spettatore raramente si rende conto di essere in un paradiso tropicale, con una natura forte e un mare cristallino. Prevale invece una dimensione quasi onirica, senza tempo, complice anche l’assoluta mancanza di alcun riferimento geografico e temporale. I fondali sembrano acquerellati per quanto somigliano a dei quadri e l’occhio si rallegra in più occasioni quando la camera da presa si sofferma sulle inquadrature più ampie.
L’aspetto che ci ha convinto di meno è stato proprio lo spiattellamento iniziale della canonica metafora sulla vita: nulla viene lasciato all’immaginazione dello spettatore, che anzi viene accompagnato per mano nel passaggio tra la realtà e l’allegoria. Va bene evitare i film ermetici ma ciò non vuol dire dover rinunciare a un minimo di mistero, di intrigante ambiguità e di spazio per l’interpretazione. Tutte cose che qui, purtroppo, stentano a trovarsi.
Verdetto
La tartaruga rossa è una co-produzione franco-belga-giapponese che prende il meglio dall’animazione degli studi e dei paesi coinvolti, raccontando la storia di un naufrago su un’isola deserta alle prese con una tartaruga che pare voglia far di tutto per ostacolare il suo ritorno alla civiltà. Una grande metafora sulla vita, la morte e il tempo che scorre trattata con delicatezza e passione e che, tra disegno, colori e sensibilità narrative ibridi rari e da elogiare, ha proprio nel suo voler essere tanto universale quanto al contempo comprensibile il suo principale difetto. Non fraintendeteci, l’esperimento è riuscito, ma la prossima volta con un pizzico di coraggio in più potrebbe rivelarsi titolo di ben altra caratura.