Dal sogno alla disillusione: l’America secondo Clint Eastwood
Occhi color ghiaccio riflettono il fumo di una pistola stanca. Intorno il silenzio di una prateria macchiata di sangue, sullo sfondo echi di gesta d’uomini la cui morale ha le sembianze di un grilletto pronto a giudicare. Poi un giorno quegli occhi di ghiaccio hanno seguito un’ombra che si muoveva oltre il confine di quelle lande assolate, c’era un mondo oltre la frontiera e il proprio passato da gringo. Al di là di quelle terre c’era un precipizio: era il solco che divideva il mondo della recitazione da quello della narrazione. Sono gli anni settanta, un attore di nome Clint Eastwood si lancia oltre quel burrone e si ritrova nella dimensione situata al di là della lente della cinepresa, lì dove si creano mondi, storie. Oltre all’attore, era nato un regista.
Il tragitto su cui ha cavalcato l’Eastwood regista è un dedalo di strade, ognuna diretta verso generi e realtà diverse. Ma negli ultimi anni il cielo che avvolge il cammino dell’uomo della polvere ha delle nuvole ricorrenti, piccole macchie di colore, che tornano puntualmente, come la firma su un quadro. Su quella tela viene dipinto il mesto addio al sogno americano: gli Stati Uniti da terra delle speranze si trasformano nella patria della disillusione. Distorsione onirica e utopica in cui le promesse di un futuro migliore si infrangono sul freddo muro della realtà. Nel presente narrato da Clint Eastwood il cammino dei suoi protagonisti è interrotto e porta ciclicamente all’impossibilità di terminare la propria missione. Un loop eterno in cui l’eroe non esiste e lascia la scena all’Uomo, con i suoi fallimenti, le sue debolezze.
Le sfumature di questa America le cui stelle sono ormai cadenti, nei film di Eastwood hanno colori sempre differenti, ma propongono costantemente l’inattuabilità dei desideri del cittadino statunitense. In Mystic River la sete di vendetta è una spinta che porta a correre senza meta, una rincorsa verso un obiettivo sfocato e i cui contorni non saranno mai visibili. La tragedia è inesorabile: riscatto e redenzione fanno parte di quell’America lontana e forse mai esistita. Il destino dell’uomo ha la consistenza dell’acqua, elemento ricorrente nella pellicola: sfuggente, impossibile da contenere e in cui i peccati vengono immersi, nascosti, ma prima o poi tornano a galla. Perché per Clint Eastwood il destino non si modifica e l’uomo osserva il proprio riflesso nel fiume, scoprendo di essere una pedina di un meccanismo che non si può interrompere.
L’eco del dolore si fa ancor più fragoroso in Million Dollar Baby, in cui il dilemma morale giganteggia, mostrando ancora una volta il lato oscuro degli Stati Uniti. Il sogno si ribalta, diventa incubo e lo sport e la boxe si trasformano in metafora esistenziale. Il dolore è congenito nell’uomo e il disincanto travolge e stoppa sul nascere il tentativo di emergere e distaccarsi dall’ordinario. Sul ring della vita non bastano due guantoni per respingere i colpi incessanti e letali del destino ed è la fuga, sotto le tetre fattezze della morte, l’unico modo di estraniarsi dalle pieghe beffarde della propria esistenza.
Per Clint Eastwood non sono solo i sogni a diventare di vetro e infrangersi sulla pietra dura su cui passeggiavano i padri fondatori e su cui ora invece crescono radici di ipocrisia. Anche i vecchi ideali, quelli che spingevano a battersi per la propria terra/patria, sono logori, ormai sbiaditi sotto i raggi di un pallido sole. La crisi dei valori tradizionali e il suo ribaltamento emergono prepotentemente in Gran Torino, in cui il protagonista Walt vive il rovesciamento e il superamento della figura del cavaliere solitario. Il suo è un mondo di frontiera, abbandonato, in cui vengono demitizzati gli eroi di un passato per troppo tempo idealizzato. Ma andare oltre ideologie malsane e ormai remote è un atto necessario, per vivere e convivere in un mondo in cui il passato non deve più essere fonte d’insegnamento per un’America che deve andare oltre. Perché non esistono eroi, ma uomini.
Il concetto dell’assenza e dell’impossibilità dell’eroismo ricorre nella poetica cinematografica recente di Clint Eastwood. L’idealismo è moribondo e lascia l’America orfana delle sue amate certezze. Del sogno passato non restano che cicatrici. Fisiche, come quelle mostrate dai soldati, ed esistenziali, come quelle dei personaggi che non riescono a metabolizzare traumi passati. Non si esce dal segno indelebile lasciato sulla propria pelle, simbolo di contraddizioni irreparabili e continuo monito di quanto sia duro proteggersi dalle avversità. La narrazione di Eastwood protrae e accresce quelle cicatrici, mostrate con il suo cinema iperrealista in cui la disillusione viene nobilitata.
Nelle pellicole di Eastwood le istituzioni sono corrotte, la giustizia è negata, le ipocrisie sociali hanno la meglio sulla verità, che si scioglie come cera al fuoco. In queste lande morali desolanti vivono i suoi antieroi, sempre fuori luogo e fuori tempo, piegati da un passato talmente pesante da schiacciare e precludere il futuro. E solo il sacrificio e la morte regalano riscatto e redenzione. Sotto una pioggia di stelle cadenti e strisce strappate. L’America di Clint Eastwood.