La tigre bianca: l’adattamento Netflix del romanzo di Adiga mostra la parabola del servo che vuole diventare padrone
“La cosa più grande che l’India abbia creato nei suoi diecimila anni di storia è la stia per polli. Vedono e sentono l’odore del sangue, sanno che toccherà anche a loro, eppure non si ribellano, non provano a scappare dalla stia. Qui i servitori sono stati cresciuti per comportarsi così”.
Un popolo intrappolato in convenzioni sociali dalle quali non riesce a uscire: è così che identifica i suoi concittadini Balram Halwai (Adarsh Gourav), protagonista de La tigre bianca (White Tiger), film Netflix (dal 22 gennaio 2021 sulla piattaforma) diretto da Ramin Bahrani, e adattamento dell’omonimo romanzo di Aravind Adiga, vincitore del Man Booker Prize.
Il protagonista si propone di raccontarci la verità sull’India attraverso la storia della sua vita, ma quel che fa più precisamente è narrarci la parabola del servo che arriva a un ruolo di potere, con determinazione ma soprattutto attraverso metodi non proprio legittimi, disilluso ormai da quelle promesse elettorali che gli hanno fatto comprendere l’importanza di non essere un uomo povero in una democrazia.
Quello stesso paese, attraverso i dettami imposti dalla famiglia, ha radicato in Balram e in tutti quelli come lui, appartenenti a una casta bassa, che servire un padrone è un grande privilegio e così lo fanno con serenità e dedizione.
Ma cosa si cela dietro il sorriso di Balram? L’uomo, a contatto con la famiglia dei suoi padroni, capisce pian piano quanto siano sbagliati i precetti con i quali è cresciuto, e quel sorriso si fa sempre più ambiguo e bugiardo, nascondendo dietro la facciata dell’amore per il suo capo, tanto odio che arriverà ad esplodere mostrandoci le fauci feline del protagonista.
È bravo in questo Adarsh Gourav (e c’è anche un ottimo doppiaggio di Davide Perino, per chi vuole vederlo in italiano), nel narrarci la storia di quel ragazzo che un tempo aveva provato a studiare, stupendo favorevolmente i suoi insegnanti che vedevano in lui il talento della tigre bianca, al quale però aveva dovuto rinunciare a causa dell’estrema povertà in cui versava la sua famiglia e questo anche per via di alcuni possidenti che sfruttavano il loro villaggio raccogliendone oltremodo frutti e guadagni. Gli stessi possidenti per cui, una volta adulto, Balram sceglie di andare a lavorare come autista e faccendiere.
L’odio senza desiderio di vendetta è un seme caduto sul granito
Citando Balzac, autore tanto apprezzato da Adiga, potremmo sostenere che l’odio senza desiderio di vendetta è un seme caduto sul granito, ed ecco infatti che la metamorfosi del suo protagonista prende vita, nonostante lo stesso Balram affermi di non essere come quei criminali che possono permettersi di compiere delitti senza fare i conti con la propria coscienza.
Balram è a tratti ripugnante, sporco fuori e non così candido internamente, al netto di un’ingenuità che fa comunque un po’ tenerezza, ma non c’è bisogno di affezionarsi per empatizzare con lui, perché il contesto rappresentato ci spinge inevitabilmente a fare il tifo per questo strano protagonista tradito sempre da tutti, anche dalla sua famiglia. La sua famiglia d’origine – che gli ha negato gli studi e non l’hai mai trattato come avrebbe dovuto – e quella “d’adozione” – che prova a vedere in Ashok e sua moglie Pinky, i suoi datori di lavoro – che tuttavia si comporteranno come tutti hanno sempre fatto con lui.
È proprio lì che l’odio a lungo sopito esce fuori e deflagra attraverso l’urlo di rabbia, esasperazione ma anche liberazione che Balram lancia in un finale intenso, degno epilogo di una storia che non può che concludersi tra luci e ombre.
In questo adattamento de La tigre bianca Bahrani gioca tra commedia, dramma e thriller, utilizzando espedienti più da blockbuster americano (e anche qui torna utile un doppiatore navigato come Perino) che da cinema indiano, come la voce fuoricampo che dona quel clima da entertainment spezzando la severità delle tematiche trattate. Forse persino troppo, oseremmo dire, ma il risultato è un film godibile che si lascia vedere senza essere affossato da un ritmo eccessivamente compassato, e scorre via nelle sue due ore di durata, facendo de La tigre bianca uno dei migliori film Netflix degli ultimi mesi.