Non solo spadaccini
Presenza fissa dell’immaginario nipponico, il samurai (dal giapponese medievale saburafu, “servire”) incarna i valori tradizionali di forza, lealtà e stoicismo, con un velo di nostalgia per un passato all’insegna del rigore morale e spirituale.
Sostituitisi nella guida del paese all’inerte aristocrazia civile sulla fine del XII sec., questi guerrieri capirono ben presto che per legittimarsi come classe dirigente avrebbero dovuto colmare il divario culturale con i propri predecessori. Nei quasi quattro secoli di storia che li videro protagonisti, si dedicarono infatti tanto all’arte militare quanto alla poesia, al teatro e al mecenatismo di tutte le branche del sapere, che coltivavano durante gli intervalli tra una campagna e l’altra.Uomini d’arme colti e raffinati, i samurai videro il proprio ruolo dimensionato a partire dall’instaurazione dello shogunato Tokugawa nei primi del Seicento, la cui nuova struttura gerarchica lasciava poca autonomia ai signori locali per coltivare il proprio prestigio, che finirono così per diventare semplici burocrati – o peggio.
È tenendo a mente questa doppia natura di intellettuali e spadaccini, intimamente consapevoli della precarietà del proprio status, che vogliamo consigliarvi un decalogo di anime imperdibili a tema samurai.
Sword of the Stranger (2007) di Andō Masahiro
Ambientato durante i tumulti dell’era Sengoku (1467-1615), il periodo per eccellenza delle storie di samurai, questo lungometraggio dello studio Bones (Full Metal Alchemist, Eureka Seven, My Hero Academia) presenta un dettaglio atipico: entrambi i protagonisti sono infatti dei gaijin, a quanto si intuisce probabilmente di origine europea. Uno è un rōnin (samurai senza padrone) cresciuto in Giappone, l’altro un soldato d’élite naturalizzato cinese.
Nel complesso, il film è un divertissement storico in cui la corte dei Ming, approfittando dei disordini interni, invia nell’Arcipelago una divisione speciale per eseguire un misterioso rituale, connesso alle sue mire espansionistiche.
In uno scenario in cui i probi samurai vengono rappresentati come piccoli signori della guerra opportunisti e codardi, spetterà al reietto Nanashi fronteggiare gli invasori e il rivale Luo-Lang. Citando a piene mani dalla saga cinematografica di Lone Wolf and Cub (1972-1974) tratta dal manga di Koike Kazuo, la Bones sforna uno dei suoi gioielli più adrenalinici e sanguinolenti – soprattutto nelle sequenze finali di scontro sull’altare.
Samurai Champloo (2004) di Watanabe Shin’ichirō
Dallo studio Manglobe (Ergo Proxy, Gangsta), questa serie stand-alone porta la firma nientemeno che del maestro Watanabe, che dopo un assaggio di spaghetti western in salsa sci-fi ci regala un’opera altrettanto contaminata e riuscita.
Mischiando insieme reference alla cultura pop degli anni Ottanta e prestiti iconografici dalla tradizione ukiyoe – i dipinti del “mondo fluttuante” di mercanti e usurai (chōnin), che poco hanno a che fare con la cultura samuraica –, Samurai Champloo è in realtà un ritratto storico molto più acuto di quanto la sua patina farsesca lasci trasparire.
Al di là dei riferimenti a eventi realmente accaduti, è infatti interessante notare che l’anime è ambientato nei primi anni del periodo Edo (1603-1868), ovvero all’inizio di quella fase di “borghesizzazione” dei samurai che fu alla base della loro decadenza, a favore di altre classi più intraprendenti.
In questo senso, nel delineare i suoi personaggi principali Watanabe compie un’interessante operazione di demitizzazione del passato feudale: concluso il periodo delle lotte fratricide, motore della società erano diventati le cameriere e intrattenitrici (come Fū), i rōnin spiantati (come Jin) disposti a tutto pur di portare a casa la pagnotta, e gli immigrati (Mugen è delle Ryūkyū, all’epoca considerate terra di frontiera) in cerca di fortuna. I samurai, al contrario, erano percepiti come una presenza grigia, operante nell’ombra per il proprio tornaconto – proprio come l’aguzzino di cui Fū è all’inseguimento.
Letture critiche a parte, l’anime non si prende troppo sul serio ed è spassosissimo, tanto da essere un must per tutti gli iniziati a prescindere dal tema samurai.
Ninja Scroll (1993) di Kawajiri Yoshiaki
Può sembrare un po’ un OT visto che il titolo richiama i “subdoli” ninja, gli eterni rivali dei samurai che agiscono nell’ombra. Tuttavia, già dai primi minuti ci si accorge che si tratta più di una questione di etichetta: gli scontri a viso aperto occupano gran parte del minutaggio, con giusto un paio di meccanismi narrativi (il veleno della femme fatale Kagero, i continui voltafaccia) a ricordarci che si tratta di una storia di spie.
Dopo essersi misurato con successo con l’horror e la fantascienza, Kawajiri (La città delle bestie incantatrici, Demon City Shinjuku, Cyber City Oedo 808) sembra qui volersi imporre una sfida: vestire l’erotismo e la trasfigurazione animalesca che sono il suo marchio di fabbrica coi panni del jidaigeki, misurandosi con le ambientazioni, le armi e la lingua – il giapponese un po’ arcaizzante che adesso è diventato la norma di qualsiasi sceneggiato televisivo sui samurai – del periodo Edo.
Il risultato è, neanche a dirlo, stupefacente. Il nome di Kawajiri si riconferma garanzia di qualità, sia dal punto di vista dell’animazione che della scrittura: nonostante la trama intricata, popolata di personaggi a profusione – come d’altronde era tipico della tradizione letteraria dell’epoca –, il film scorre veloce andando a toccare tutti i topoi delle storie sui samurai: l’amore impossibile, la solitudine dell’eroe, l’inanità della violenza.
Un’opera che ha lasciato il segno, la cui influenza si sarebbe vista già pochi anni dopo la sua uscita: chi ha letto Bestia (2000) di Ikegami Ryōichi?
Program (2003) di Kawajiri Yoshiaki
Ancora una volta Kawajiri (non me ne vogliate), questa volta alle prese con un corto – dura appena 4 minuti – all’interno di Animatrix (2003), l’ambizioso progetto collettivo con cui i migliori animatori giapponesi, tra cui ancora Watanabe, Koike Takeshi (Redline) e Morimoto Kōji (Noiseman Sound Insect, Eternal Family) vollero omaggiare il capolavoro degli allora fratelli Wachowski.
Summa estetica della filmografia di Kawajiri, Program appare quasi una lettera d’addio da parte del regista, il quale non sarebbe più tornato dietro la macchina da presa nel nuovo millennio, se non nel deludente Highlander – Vendetta Immortale (2007), maldestro tentativo statunitense di riesumare il suo talento, del tutto privo delle consuete marche estetiche.
Come il samurai che dichiara alla sua amante di aver visto troppo, e la sfida a duello per riportarla con sé nel Matrix, così Kawajiri sembra dirci addio, regalandoci un ultimo chanbara tinto di cremisi: una meta-proiezione che per bocca dei personaggi parla direttamente allo spettatore, invitandolo a lasciar andare il suo cantastorie preferito.
Afro Samurai (2007) di Kizaki Fuminori
Tratto dall’omonimo dōjinshi di Okazaki Takashi, questo anime nacque quasi per caso dallo spirito d’iniziativa dello studio Gonzo (Hellsing, Full Metal Panic, Last Exile), che gli fece fare il balzo da opera di nicchia a miniserie evento.
Dichiarazione d’amore alla cultura afroamericana, i cinque episodi sono frutto di un sodalizio creativo tra Okazaki e produttori/artisti dall’altra sponda del Pacifico, tra cui spiccano Samuel L. Jackson e Ron Perlman al doppiaggio, oltre alla colonna sonora hip-hop a firma di RZA.
In un Giappone distopico dove è l’abilità con la spada a fare la differenza tra la vita e la morte, il giovane Afro è il secondo samurai più abile della nazione, come attestato dalla fascia Niban (Secondo) che gli cinge la fronte. Scopo della sua furia omicida è uccidere Justice, l’attuale portatore della fascia Ichiban (Primo), che anni addietro uccise suo padre sottraendogli il titolo.
Tra androidi, lande desolate e rap, Afro Samurai va dritto al punto a un ritmo quasi videoludico, passando per mob e mid-boss fino al gran capo. L’ultimo episodio lascerà un conto in sospeso, per saldare il quale dovrete vedervi anche il lungometraggio Afro Samurai – Resurrection (2009), ma state certi che non sarà un peso.
L’Immortale (2019) di Hamasaki Hiroshi
Un altro grande anime tratto da un grande manga, ovvero il capolavoro di Samura Hiroaki Mugen no jūnin (titolo int. Blade of the Immortal), affidato a uno dei nomi di punta dello studio Liden Films (Terra Formars, Berserk).
Per chi già conosce l’opera originale, c’è poco da aggiungere. L’adattamento segue fedelmente il percorso di redenzione di Manji, il samurai (quasi) immortale che ha giurato di uccidere 1000 uomini malvagi per mettere fine alla sua maledizione, e quello di vendetta di Rin, privata anzitempo dei genitori.
Vale invece la pena di spendere qualche parola sul dibattito che infiammò i forum ormai quasi due anni fa: il confronto con l’anime del 2008, prodotto dallo studio Bee Train (Noir, Psychic Detective Yakumo).
A chi ha familiarità con la serializzazione del manga, non sarà sfuggito il buco di quattro anni tra la messa in onda della prima serie e l’uscita dell’ultimo capitolo. Nel complesso, vale più o meno lo stesso discorso che si può fare per il tanto vituperato primo anime di Full Metal Alchemist: gli anni di differenza pesano – soprattutto a livello tecnico, per quanto concerne la qualità delle animazioni e il voice acting –, e un vero finale non c’è, visto che il manga era ancora in corso di pubblicazione.
Non fraintendete, però: anche quello del 2008 non è male, e guardarlo non sarà uno spreco di tempo.
Ninja Bukeichō (1967) di Ōshima Nagisa
Il fuoriprogramma di questa top ten non è esattamente un anime, ma se avete riconosciuto il nome del regista siamo sicuri che vi piacerà.
A cinque anni dalla conclusione del capolavoro anarchico di Shirato Sanpei, il manga-fiume Ninja bukeichō – Kagemaru den (titolo con cui è stato distribuito anche in Italia da Hazard), il pioniere della nouvelle vague giapponese Ōshima Nagisa (La cerimonia, L’impero dei sensi, Furyo) decide di filmare le singole tavole per farne una versione per il grande schermo.
In questo caso, l’animazione è data dal regista stesso, che utilizzando al massimo la modesta cinepresa, giocando con zoom, movimenti di macchina ed effetti ottici improvvisati, prova a raccontare la storia di lotta di classe di Shirato – il cui protagonista, il ninja Kagemaru, si mette alla testa di una rivolta di contadini – come se stesse leggendo un libro di favole (politiche) a un pubblico di adulti.
Da vedere, oltre che per l’originalità dell’operazione in sé, anche per l’acuta sintesi del corpus originale e per il cast di doppiatori non professionisti.
House of Five Leaves (2010) di Mochizuki Tomomi
Continuiamo sulla strada tracciata da Afro Samurai, con questa piccola perla indie tratta dal manga omonimo di Ono Natsume, autrice di dōjinshi innamorata del nostro paese a cui ha dedicato una delle sue opere più celebri (Ristorante Paradiso, 2005).
Tra gli autori citati, probabilmente quella col tratto meno “mangoso”, il chara design di Ono si contraddistingue per gli occhi languidi e i tratti stilizzati, che conferiscono ai personaggi (spesso allampanati) un’aria malinconica eppure – anzi, forse proprio per questo – più umana rispetto all’animazione mainstream.
Portata sul piccolo schermo dall’ottima Manglobe, la regia è stata affidata al veterano Mochizuki Tomomi, l’enfant prodige dello Studio Ghibli dietro Si sente il mare (1993), il cui talento attirò l’invidia di Miyazaki – che l’avrebbe poi di fatto estromesso dai progetti futuri.
Il protagonista di House of Five Leaves è il rōnin Masanosuke, perennemente disoccupato a causa della sua indole gentile e introversa, che poco si addice a un guerriero. Entrato per caso in contatto con il capo di un gruppo di criminali, accetta di entrare a far parte della sua banda, ammaliato dai modi di fare del leader. Da qui la trama diventa abbastanza intricata, intersecandosi con la vita di ciascun componente.
Un anime sui samurai un po’ fuori dalla norma, che non brilla certo per gli scontri o le scene d’azione, ma che si distingue per la raffinatezza della scrittura e la ricostruzione dell’atmosfera storica.
Shigurui (2007) di Hamasaki Hiroshi
Contraltare ideale del precedente House of Five Leaves, Shigurui è un racconto sanguinario che mette in luce il lato spietato della via del samurai.
Adattamento del manga di Yamaguchi Takayuki – precedentemente noto in Occidente per Apocalypse Zero (1996) – a cura della Madhouse, ritroviamo anche il nome di Hamasaki alla regia di gran parte degli episodi.
Ambientato agli albori dello shogunato Tokugawa, ovvero nei primi anni di quel processo di controllo del potere militare di cui si diceva nell’introduzione, Shigurui si apre con un fatto che suscita l’obiezione del bakufu per la sua brutalità: il bando di un torneo all’ultimo sangue, il cui esito deciderà il successore del maestro Iwamoto.
L’anime racconta gli antefatti dei due principali candidati al titolo: i samurai Gennosuke e Irako, entrambi menomati – l’uno privo del braccio sinistro, l’altro cieco. A complicare il loro rapporto, però, c’è anche l’amore di una donna…
Punto di forza di Shigurui è l’atmosfera tetra e solenne, caratterizzata da una palette tendente al grigio ulteriormente valorizzata dalla fotografia.
Scontri a parte, gli episodi scorrono lentamente, quasi come in un dramma teatrale che si prenda il suo tempo per preparare il terreno agli scontri, permettendo di apprezzare il lavoro certosino svolto con i volti dei personaggi – anche questi, ben distinti rispetto al mainstream.
Onihei (2017) di Miya Shigeyuki
Andiamo a pescare nel passato con quest’ultimo titolo, tratto da una serie di romanzi storici degli anni Sessanta dalla penna di Ikenami Shōtarō, autore più volte oggetto di adattamento sia per il cinema/TV che per il fumetto.
L’anime in realtà è ben recente, prodotto dalla TMS Entertainment – lo studio alle spalle dei cartoni animati che hanno fatto l’infanzia di due generazioni, dai Moomin, passando per Occhi di Gatto fino a Hamtaro – e diretto dalla vecchia conoscenza Miya Shigeyuki, che per lo studio aveva già all’attivo una regia per Buzzer Beater (2005).
La serie segue le vicende di Hasegawa Heizō detto “il Demone”, personaggio storico attestato in varie fonti dell’epoca – siamo nell’era Tenmei, una sub-periodizzazione del periodo Edo funestata da carestie, rivolte e incendi –, sia ufficiali (era capo della “polizia” shogunale di Edo) sia di colore, in quanto la sua abilità come funzionario e spadaccino era diventata oggetto di mitizzazione nella narrativa popolare.
Dal punto di vista tecnico, Onihei non è particolarmente originale, andando a collocarsi a pieno titolo nella categoria delle produzioni per il grande pubblico.
Tuttavia, è da premiare (e da vedere) per l’intenzione in sé, ovvero di svecchiare un capolavoro della letteratura giapponese moderna, mettendone in risalto gli aspetti più godibili – l’erotismo e gli intrecci da romanzo giallo – senza scadere nei cliché televisivi.