“Meglio vivere di rimorsi che di rimpianti”
Tre fratelli, tutti in procinto di affrontare un grosso cambiamento nella loro vita, si ritrovano a dover tirare le somme del loro percorso, mettendo in discussione ogni certezza.
Tratto dall’omonimo romanzo di Stephen McCauley, L’arte della fuga è un interessante adattamento “made in France” diretto da Brice Cauvin. Nei nostri cinema arriva il 31 maggio di quest’anno, nonostante si tratti di una produzione del 2014, uscito nelle sale francesi nel 2015.
Antoine, Gérard e Louis sono tre uomini come tanti, non più dei ragazzi ma ancora pieni di dubbi sul futuro, tediati dalle pressioni dei genitori e coinvolti in relazioni complicate. Perno della storia è Antoine il quale, nel tentativo di far contenti tutti, sembra non accontentare mai se stesso. La sua famiglia è fatta da genitori invadenti e fratelli casinisti, tutti parlano ma nessuno ascolta; praticamente una realtà come altre mille. La vita di Antoine si divide tra la sua famiglia, il suo compagno e il lavoro che svolge insieme la migliore amica Ariel.
Punto forte del film sono per l’appunto i personaggi, che riescono a distinguersi fin dai primi minuti, sia per stile che per modus operandi. Nessuno dei protagonisti è una macchietta, ognuno è stato costruito con svariate sfaccettature percepibili in tanti piccoli dettagli. Una simile credibilità è dovuta alla bravura del cast ma anche alla cura della regia, tuttavia prima di tutto ciò occorre elogiare il minuzioso lavoro di scrittura di Raphaelle Desplechin-Valbrune e Brice Cauvin. La sceneggiatura non originale ha subito un lavoro di restyling enorme, grazie anche ai consigli di Agnès Jaoui – amica del regista e interprete del personaggio di Ariel – e dello stesso Cauvin, autore del romanzo.
Il processo di adattamento di questa pellicola non è affatto da sottovalutare: a differenza del libro, la storia è ambientata in Francia, il che comporta non solo un cambio di ambientazione ma anche una riscrittura completa dei personaggi, dei loro atteggiamenti e il tipo di rapporto presente tra loro, specie tra familiari. Un tale processo di europeizzazione della narrazione dimostra come sia importante contestualizzare un soggetto a seconda della cultura che ospita la messa in scena, un atteggiamento spesso sottovalutato dai cineasti che intendono importare un romanzo straniero nel proprio cinema.
La regia ha uno stile che alterna eleganza e irriverenza, giocando con i primi piani fino a stringersi sul dettaglio. L’accordo tra le inquadrature sa suggerire elementi narrativi che stuzzicano la malizia dello spettatore. Altro ruolo principe lo ricopre la musica, non è un caso che il film si chiami proprio “L’arte della fuga”, tratto dalla composizione di Bach. La regia può essere definita musicale, non necessariamente per la colonna sonora, ma per il ritmo adottato, in quanto sa prendersi le sue pause per poi schizzare via al momento giusto. Il tutto è orchestrato come un leggiadro balletto. Gli stessi movimenti dei personaggi sembrano una sorta di danza, come le traversate in bici di Antoine o i passi pesanti e decisi di Ariel, o anche come tutta la famiglia ruoti attorno al capofamiglia in una sorta di girotondo vagamente scoordinato.
Tuttavia l’opera parla di “fuga” anche nel senso canonico del termine, che può effettivamente considerarsi la parola chiave legata al tema della storia. Tutti scappano in continuazione, scappano dei problemi, dalle responsabilità, dalle discussioni scomode e talvolta anche dai sentimenti. È quasi impossibile non immedesimarsi in questi sventurati eroi in eterno conflitto con loro stessi, lottando contro i propri desideri e inseguendo sogni che hanno paura di afferrare. Nonostante l’enorme malinconia che tiene insieme questo racconto corale, la velata ironia dei dialoghi e delle situazioni alleggerisce il tutto rendendo il film molto piacevole e delicatamente coinvolgente.
Verdetto
I pregi di questa pellicola sono parecchi ma non si può certo dire che sia un film per tutti. Stiamo sempre parlando di cinema francese, che va a toccare corde che non suonano per qualsiasi tipo di spettatore. Scordatevi quindi scenette melense o dichiarazioni plateali tipiche delle commedie romantiche statunitensi. Ai francesi piace prendersi il loro tempo e preferiscono di gran lunga lasciar intendere i concetti piuttosto che spiattellarli in faccia allo spettatore. Questo non è certo un difetto, ma non si può non dire che tanta reticenza potrebbe indispettire. È pur vero che questo tipo di film richiede svariate letture tra le righe; d’altro canto la storia, anche se non presenta chissà che originalità, ha un messaggio potente che si può tradurre con un bel “carpe diem”, mentre la soluzione del finale potrebbe risultare tanto simbolica quanto crudele. La natura strettamente di nicchia della produzione ci fa supporre una distribuzione piuttosto misera nelle sale, ma se avrete la fortuna di trovarlo al cinema ve lo consigliamo per trascorrere un’ora e mezza decisamente molto piacevole.