Il primo vero e proprio horror di Edgar Wright: Last Night in Soho
Edgar Wright è un appassionato di horror. Lo è da sempre, con George Romero suo maestro che ha plasmato la sua visione e il suo gusto cinematografico. Anche se poi, nella sua carriera, il cineasta inglese ha percorso tutt’altra strada. L’horror ne è stato certamente motore, ma ai suoi inizi con la Trilogia del Cornetto era il demenziale che spingeva con insistenza le sue opere, mascherando l’orrore con la presa in giro e facendo delle risate le armi più potenti contro zombie e invasori.
È stata poi la musica a sospingerlo costantemente: playlist dalle scelte iconiche, superbe, canzoni che pochi altri registi avrebbero saputo maneggiare così bene e che hanno portato l’autore a realizzare quella che è quasi un’opera musicale quale l’action Baby Driver.
Avendo usufruito dei suoi modelli di riferimento cinematografici e musicali, essendo stato in grado di gestirli con accortezza tale da saperli mescolare trovando così nella loro commistione un incentivo su cui puntare, arrivato al suo settimo film Edgar Wright decide di adottare la semplicità.
Di rinunciare all’incrocio di generi e di abbandonare anche quella marca incisivamente comica che ha da sempre reso frizzanti i suoi lavori. Ha inoltre apportato delle asciugature al suo montaggio continuamente sincopato e coreografato, facendo delle cuciture tra sequenze, un lavoro invisibile e non sottolineato musicalmente o sonoramente come accaduto fino ad ora con le sue opere, facendo prevalere uno stile pulito e privo di dinamica.
Lo spogliarsi dei suoi soliti modi di fare rappresenta la volontà di Wright di approcciarsi con pronunciata purezza al modello classico di horror sempre amato dall’autore. Da aggiungersi alla componente orrorifica questa volta è solamente un sotto genere come quello del thriller psicologico che da sempre rientra negli stilemi di molto cinema del terrore.
Una contaminazione classica come classico vuole essere il racconto del suo Last Night in Soho, presentato in anteprima mondiale in occasione della 78esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nella sezione Fuori Concorso.
Se il mito di George Romero si fondava sulla denuncia politica di film che attraverso le proprie storie e i propri mostri riuscivano a farsi specchio delle ipocrisie del proprio tempo, Edgar Wright batte su di una via che guarda al sociale e lo rimette al contemporaneo. Un’attenzione agli argomenti e alle tematiche sensibili di un periodo come quello attuale che cerca in ogni maniera di denunciare un maschilismo da sempre fonte di prevaricazione e controllo sul femminile che crea ponti tra un passato machista ormai incastonato e un presente che, invece, vuole cambiare.
Gli zombie del regista de L’alba dei morti viventi vengono sostituiti dai fantasmi di Wright in Last Night in Soho, spiriti che tornano a tormentare come avevano fatto anche in vita e che in una storia di minacce e privazioni, di prostituzione e sogni spezzati, si ripresentano privati del volto perché tutti uguali nel momento in cui vanno a molestare.
I doppi di Thomasin McKenzie e Anya Taylor-Joy
Anni Sessanta di cui protagonista è Anya Taylor-Joy mentre la modernità viene vissuta dalla giovane Thomasin McKenzie, la quale intraprende attraverso i sogni una doppia vita. Quella che le fa vestire i panni di Sandie quando è addormentata e che le permette sia di sperimentare sulla propria pelle le sensazioni della ragazza, sia di poter osservare esternamente i suoi tentativi di diventare una cantante.
E nella dicotomia tra giorno e notte, nello sdoppiamento che finisce per confluire in un’unica, tormentata realtà, Edgar Wright affronta un altro genio cinematografico e arricchisce di elementi hitchcockiani il suo racconto. Tutto il tappeto narrativo su cui si costruisce il doppio nel film passa per i rimandi a Vertigo, da quelle luci al neon di un insegna fuori sulla strada alla conchiglia di capelli di uno dei personaggi. Da un coltello pronto a infilarsi nella carne ad un fuoco che finirà per divampare.
Last Night in Soho fa perdere a Edgar Wright quello stile che lo ha contraddistinto fino a questo momento nel proprio percorso, ma gli permette comunque di realizzare una pellicola che funge tanto da intrattenimento, quanto da analisi sui rapporti di genere e come possano costituire degli incubi. L’amore per gli anni Sessanta diventa nell’opera ribaltamento per una denuncia ad una società che deve ancora superare i traumi del passato, ma potrà farlo bruciando paure e fantasmi.