In loving memory of P.T.
Nato dalla mente dei polacchi di Blooper Team, Layers of fear è un horror in prima persona stile walking simulator che definirei oniricamente angosciante. Approdato ad agosto dell’anno scorso su Steam in versione early access e rilasciato il 16 febbraio in versione integrale anche sulle console PS4 e Xbox One, il titolo permetterà al giocatore di esplorare i meandri della mente malata di un pittore dell’ottocento, popolata di orrori di ogni sorta generati dal senso di colpa e dalla disperata ricerca di un talento ormai perduto.
Già dalle prime battute e dal trailer possiamo notare come gli autori si siano fortemente ispirati allo stile adottato dal tristemente noto P.T. di Kojima che doveva fungere da preambolo al mai nato Silent Hills sviluppato in coppia con Guillermo del Toro. Nonostante l’insuccesso del titolo, i giocatori sono rimasti affascinati da quel mondo fatto di oscurità, porte socchiuse, feti dentro i lavandini e allucinazioni spettrali; tale successo non è passato inosservato e molti hanno pensato di cavalcarne l’onda, creando diversi titoli indie-horror… molti dei quali dei flop annunciati, ma non è questo il nostro caso o non staremo neanche qui a parlarne.
Strati di paura
Narrativamente parlando, Layers of Fear, è sicuramente un buon prodotto e la scelta di far immergere il giocatore nella mente dell’artista in maniera graduale, attimo dopo attimo, passo dopo passo, contribuisce a dare quel senso di angoscia tipico dei giochi horror. Se in un primo momento, infatti, saremmo accolti dalla serenità di una bella casa, frammenti di giornale che decantano il talento del nostro protagonista e foto di famiglia con moglie e figlia in pieno stile Mulino Bianco, una volta varcata la soglia del nostro studio di pittura e scoperto il quadro posto al centro della stanza, ci renderemo conto di come qualcosa non quadri (quadri… pittura… grasse risate proprio) in tutta la situazione: la famigliola felice in realtà non esiste e il nostro pittore è in realtà un pazzo schizofrenico, perennemente tormentato dal senso di colpa, dal demone dell’alcol e dalla constante ricerca di una musa ispiratrice senza la quale non potrà mai concludere il suo capolavoro finale… la sua Gioconda.
La rimozione del telo dal quadro può esser facilmente paragonata all’apertura delle porte dell’Inferno, da quel momento in poi la casa prenderà vita e ad ogni apertura di porta ci ritroveremo in un nuovo corridoio totalmente diverso rispetto al precedente, dove al 90% accadrà qualcosa, che si tratti di una semplice finestra che si chiude o un anatema che appare scritto sul muro o una misteriosa figura – facilmente riconducibile al non umano – che avanza lentamente verso di noi. È proprio in questo frangente che i Blooper hanno deciso di creare i primi layers of fear: il crescendo di orrori, ansia e paura al quale si assiste andando avanti nel gioco, è facilmente paragonabile a un quadro, che prende forma pennellata su pennellata, colore su colore, strato su strato; proprio quando penserete di aver visto il peggio, si aprirà una nuova porta che vi getterà in un tunnel peggiore del precedente, tanto che spesso vi ritroverete ad avere più un’espressione basita che terrorizzata.
Mobilia volante e scritte sui muri
Non ho detto basita perché non conosco l’italiano, ma semplicemente perché dire “faccia-da-imbecille” mi sembrava eccessivo – per amor di autostima – anche se la seconda versione è forse più conforme alla realtà. Non amo particolarmente il genere horror, poiché tende a finire facilmente nello splatter e sinceramente mi fa schifo nel vero senso della parola, ma quando un titolo appartenente al genere merita particolarmente, mi preparo psicologicamente e affronto il nemico.
Chiariamoci: sotto l’aspetto del gameplay Layers of Fear non offre niente di innovativo, potremmo facilmente paragonarlo a un walking simulator nel quale dovremmo percorrere i già citati poliedrici corridoi zoppicando – il nostro pittore è claudicante… tanto per favorire eventuali fughe – e affrontando orrori vari come mobili volanti, ombre immaginarie, bambole indemoniate e loschi figuri stile The Ring, il tutto condito da vari scare jump atti a far venire principi di ischemie cardiache e spuntare capelli bianchi. Nulla di eccezionale insomma, se non fosse per l’aggiunta di un particolare intriga sempre molto: la ricerca degli oggetti. Non sto parlando delle ottomila bandierine di Assassin’s Creed, né dei fogli di Slenderman, ma di piccoli frammenti nascosti all’interno dei livelli, camuffati da trafiletti di giornale, fotografie e oggetti, che andranno a comporre il puzzle del tormentato passato del nostro protagonista, ricordo dopo ricordo… strato dopo strato, svelando delle presunte colpe delle quali si è macchiato, dando vita alla follia che ormai lo tiene totalmente intrappolato.
Ad aggiungersi a tutto ciò troviamo anche dei piccoli enigmi inseriti qui e là, non molto macchinosi in termini di risoluzione ma curiosi nelle loro dinamiche: di base si tratta di trovare delle sequenze numeriche composte da tre numeri, il problema è capire dove siano nascoste o, più che altro, come svelarle. Degna di nota è senza dubbio la trovata del telefono che suona in posti tutt’altro che normali e l’intera sequenza successiva, che non vi starò a svelare onde evitare spoiler ma sulla quale v’invito a prestare attenzione se avrete occasione/voglia di provare il titolo. Non è sarà la trovata del secolo ma è sicuramente fonte d’ansia e ricorda molto le classiche situazioni che si vivono negli incubi… tranquilli, il numero sul telefono riuscite a farlo, bè più o meno, io ho avuto problemi ma credo sia un mio limite con i controlli sinceramente.
Qualche sbavatura qua e là
Come sempre non è tutto rosa e fiori purtroppo e il gioco non è privo di difetti, sia dal punto di vista tecnico che da quello del gameplay: volenti o nolenti, creare e inserire uno script in ogni singola stanza (sia esso un semplice vaso che cade, o delle secchiate di vernice che colano dal soffitto) appesantisce il tutto e il framerate accuserà parecchio il colpo, tanto che prima di entrare in alcune stanze si avrà un picco abbastanza alto (breve ma intenso) da far capire che al 90% accadrà qualcosa, togliendo l’effetto sorpresa dall’eventuale jumpscare che assume così un retrogusto di inutilità. A tal proposito c’è da dire che, soprattutto verso la fine della nostra avventura, i suddetti non sortiranno più alcun effetto sul giocatore, sia perché si è totalmente immersi nel delirio – composto da quadri deformi, suppellettili animate e bambole indemoniate – sia perché, si vuole arrivare a mettere il punto a tutta la storia il prima possibile, forti soprattutto del fatto che – occhio al mini spoiler che poi mi maledite in massa, saltate fino al prossimo capoverso – nessuno tenterà di ucciderci per tutto il tempo! Già perché anche le supposte apparizioni soprannaturali (leggasi fantasmi) non saranno altro che un frutto della mente del protagonista e al massimo ci faranno perdere i sensi per poi farci risvegliare in una stanza differente della casa.
Anche lo “strato finale” del nostro dipinto ha qualche neo, il più grande di tutti è sicuramente il senso di fretta con il quale si ha la sensazione che sia stato realizzato: vuoi il picco di delirio del nostro protagonista, vuoi il framerate che implode, vuoi quel che ti pare, la sezione finale è sì ricca di eventi, ma talmente tanto confusi da sembrare un po’ eccessivi, per lo meno ai miei occhi, tanto da farmi chiedere più di una volta “si ma quanto finisce?” il che non è mai sano in un videogioco.
A parte queste piccole pecche, il lavoro di Blooper Team eccelle sia per quanto riguarda la grafica sia nel sonoro, entrambi più che degni di rivaleggiare con le grandi case produttrici odierne: se da un lato abbiamo una cura dei dettagli decisamente notevole, dall’altra il sonoro fa da padrone nel creare la giusta atmosfera. Un pianoforte che inizia a suonare per conto suo in un luogo imprecisato della casa, una frase sussurrata alle nostre spalle, scricchiolii misti a rumori vari e il costante suono della pioggia che si abbatte sulle finestre – canonico ed immancabile temporale – possono sembrare dei semplici cliché inseriti all’interno dell’intera opera, ma, se ben realizzati, sono più che benvenuti al fine di creare la giusta combinazione di atmosfera e immedesimazione.