Tiziano Sclavi, dal silenzio alle graphic novel
Tiziano Sclavi non è solo uno dei più grandi maestri della secolare storia del fumetto italiano, è anche uno degli autori più innovativi, sperimentali ed eclettici che abbia mai calcato la vita culturale del nostro paese. Non c’è solo Dylan Dog, quindi (che è comunque il maggior successo editoriale delle ultime tre decadi) e, del resto, ve ne abbiamo approfonditamente parlato in uno speciale che analizza pezzo per pezzo la sua straordinaria carriera (lo trovate qui). No, il Tiz è forse uno di quei talenti che nascono ogni cento anni, artisti difficilmente classificabili che vanno controcorrente e vedono orizzonti nuovi là dove gli altri trovano limiti. Anche per questo motivo il suo progressivo e inesorabile allontanamento dalla scrittura, il suo “ritiro a vita privata“, aveva colpito dritto al cuore degli appassionati dell’Indagatore dell’Incubo e degli amanti della letteratura in generale. Ed è sempre per questo che il suo ritorno alle scene, accolto con celebrazioni quasi bibliche (lui che per natura è un personaggio così schivo e timido) aveva suscitato tanto clamore. Certo, nessuno poteva prevedere che avrebbe dato seguito e che avrebbe addirittura scritto una graphic novel: Le voci dell’acqua, disegnata da Werther Dell’Edera e pubblicata da Feltrinelli Comics.
In una città irriconoscibile, misteriosa e oscura, cade da un tempo che sembra infinito una pioggia insistente. L’acqua precipita dal cielo, schiantandosi sulla terra, sui palazzi e sulle persone che tentano di rifugiarsi sotto gli ombrelli, inesorabile, pesante e insostenibile. Stavros, un uomo triste e malinconico, dal passato burrascoso e flagellato dai ricordi, è uno dei tanti nessuno che calpesta continuamente il vasto palcoscenico del mondo e cammina all’interno di questa metropoli indefinibile. Non ha proprio niente di speciale rispetto agli altri, tranne che dice di sentire delle voci quando scorre l’acqua. Si reca per un consulto da un amico neurologo, che gli prescrive dei farmaci per la schizofrenia. Ma decide di non prenderli. In fondo quelle voci, anche se sono tristi e strazianti (come ci fa sapere il narratore), gli tengono compagnia. Lo fanno sentire meno solo, insieme all’acqua che le porta.
Tiziano Sclavi: back in action
Dicevamo della ricomparsa sulla scena di Tiziano Sclavi, inattesa e sorprendente, svelata pochi mesi prima del trentennale di Dylan Dog e arrivata puntuale con l’albo 362 della serie regolare, Dopo un lungo silenzio, successivo a quel Mater Dolorosa che ha dato ufficialmente il via ai festeggiamenti nell’ormai storica data del 29 settembre 2016. Non ci dilungheremo troppo nei dettagli facendo la cronistoria degli eventi (anche perché l’abbiamo già fatta qui), ma quel giorno fu annunciato dal curatore Roberto Recchioni che non si sarebbe trattato di un episodio isolato. Il Tiz aveva ormai ripreso a battere sulla tastiera a pieno ritmo, tant’è che 13 mesi dopo lo spegnimento delle trenta candeline ecco arrivare un inaspettato bis: Nel Mistero, numero fondamentale che vedeva ricomposta la premiata ditta dell’orrore formata da Sclavi e da Angelo Stano. A distanza di un decennio dal suo addio alle armi (avvenuto nel 2007 con Ascensore per l’inferno), il papà di Dylan piazzava ben due sceneggiature nell’arco di un anno confermando di aver ritrovato almeno in parte la sua proverbiale energia.
Ma, in realtà, non si poteva dire lo stesso del suo talento, che ancora esitava a tornare quello di un tempo e che dava l’impressione non aver ancora riacquistato la visione tipica degli anni ruggenti del successo.
Il che è comprensibile, in fondo. Quando parliamo di Tiziano Sclavi, non si può fare a meno di menzionare la sua vicenda personale, magnificamente raccontata nel documentario Nessuno siamo perfetti di Giancarlo Soldi. L’autore, infatti, ha avuto un passato tormentato e difficile, di cui l’alcolismo (“condiviso” con Dylan) altro non è che la punta dell’iceberg. Non stiamo parlando del classico luogo comune del “genio e sregolatezza“, bensì di un malessere molto più profondo e complesso che lo ha condotto in un tunnel fatto di psicofarmaci, incubi (veri) e sedute psichiatriche. Un malessere in parte combattuto e in parte accentuato dalla scrittura, a cui poi è seguita una fama che ha finito per pesare negativamente.
Dunque l’allontanamento, di cui tanto si è parlato e discusso, non è stato dovuto come pensavano le malelingue ad un’esaurimento della linfa creativa bensì dal bisogno di ritrovare pace e serenità. Un congedo che per questo appariva definitivo e irreversibile, perché i sacrifici di una carriera ai massimi livelli parevano inconciliabili con una simile necessità. E invece, Sclavi è tornato a scrivere al termine di un silenzio lunghissimo, è tornato a casa dopo aver vagato alla ricerca della tranquillità per tanto tempo desiderata.
Nuovo Sclavi, vecchio Sclavi
Un ritorno così straordinario, un’autentica risalita dall’inferno, oltre che a strappare un sorriso sincero dalla bocca dai fan e dai lettori di fumetti si portava dietro anche tanti interrogativi. C’era molta curiosità soprattutto sul tipo di Sclavi che ci saremmo trovati di fronte. Perché se è vero che scrivere è come andare in bicicletta e non si scorda mai, ci vuole sicuramente del tempo per riuscire a pedalare con la stessa andatura di prima e non è detto che sia possibile recuperarla. Inevitabilmente, stare fermi così a lungo lascia degli strascichi più o meno tangibili, a livello muscolare ma soprattutto mentale. All’incirca, è quello che è capitato a Sclavi, che lentamente ha iniziato un graduale processo di riavvicinamento nei confronti di se stesso e della sua poetica.
Se in Dopo un lungo silenzio aveva dato l’impressione di riallacciare i ponti con Dylan parlando di ciò che li rende simili nonostante le differenze (l’alcolismo), con Nel Mistero sembrava volersi riappropriare dei classici tópoi narrativi che lui stesso aveva coniato trent’anni fa. La sensazione, in entrambi i casi, era che Sclavi stesse cercando di rispolverare il suo intero repertorio cominciando dalle basi, che volesse partire piano piano con un piacevole giretto di campagna prima di tornare nei territori a lui più consueti. In questo senso, le prove su Dylan mostrano una progressione in crescendo che Le voci dell’acqua confermano in tutto e per tutto. Tuttavia, con una differenza sostanziale: lo Sclavi di adesso, per quanto mantenga dei punti in comune col suo predecessore, è molto diverso da quello che ha lasciato la scrittura nel 2007.
Infatti, ci troviamo di fronte ad un’artista somigliante in tutto e per tutto al grande giornalista, paroliere, sceneggiatore e scrittore che abbiamo imparato ad apprezzare negli anni ’80 e ’90, tuttavia c’è anche qualcosa di diverso. E non siamo gli unici ad averlo notato. Sia Roberto Recchioni, che l’ha convinto a riprendere in mano la penna, sia i disegnatori che hanno illustrato le sue ultime sceneggiature (e quelli attualmente al lavoro) hanno rilasciato dichiarazioni piuttosto unanimi a riguardo. Mentre confermavano a più riprese che Sclavi aveva ritrovato la sostanza dell’epoca d’oro, aggiungevano che la forma era cambiata. La sua scrittura si era fatta più asciutta, più precisa, chirurgica, sintetica, breve (forse troppo per certi aspetti) ma aveva mantenuto intatta la sua grande forza comunicativa. È come se il Tiz avesse ripulito il proprio stile dei fronzoli, delle giravolte letterarie e delle sperimentazioni testuali, per lasciare intatto il suo spirito originario.
Ha operato per sottrazione, riprendendo quelli che sono i suoi temi centrali quali la solitudine, l’attenzione per le miserie umane, le sfumature paranormali e paradossali che si infiltrano nel reale, per mostrarli nudi e crudi, liberi da qualsivoglia artificio. Potremmo quasi definirlo uno Sclavi minimale, essenziale, a volte scarno e brutale, eppure perfino più potente. Se prima la sua poetica ci ammaliava con giochi stimolanti, riferimenti e citazioni, per poi insinuarsi lentamente sotto pelle, ora ci colpisce con un micidiale gancio nello stomaco che arriva subito, dritto al punto.
Come acqua che scorre
Le voci dell’acqua è forse la prova evidente di questo nuovo “Sclavi 3.0“. Sembra un racconto più che una graphic novel, una storia-non storia disorganica che si muove per argomenti invece che seguendo un percorso lineare. Anzi, per certi aspetti non sembra neppure un fumetto, quanto un caleidoscopio di diverse forme narrative che ruba alle letteratura e all’arte sequenziale, come testimoniano la divisione in capitoli e la presenza di parti in prosa. Il protagonista è solo una voce all’interno di un coro, un punto di collegamento tra diverse sequenze che trattano vicende apparentemente autonome divise su più piani temporali (passato, presente e futuro) e legate dal contesto di fondo. Questo non è che un altro di quei classici meccanismi sclaviani che abbiamo ammirato decine e decine di volte su Dylan Dog, dove l’Indagatore era il pretesto per unire tra loro narrazioni scollegate.
E non è l’unica formula tipica che il Tiz da l’impressione di riprendere all’interno di questo libro. C’è per esempio il rapporto tra il sogno e la realtà, l’assurdo di decessi inspiegabili, i freaks, gli alieni, l’amore negato, la figura del divino e perfino il dialogo con la madre, grande tema ricorrente declinato a più riprese nel corso della sua intera carriera. Inoltre, possiamo trovare un’altra delle indimenticabili frecce dell’arco sclaviano: la morte e le riflessioni che l’accompagnano, da sempre care al papà dell’inquilino di Craven Road.
Ma lo spartito suonato è diverso così come l’idea stessa della morte. Sclavi lega al concetto dell’Oscura Signora quello dell’acqua, dove per acqua non si intende solo il liquido bensì soprattutto una parte consistente del nostro essere che, giustamente, da qualche parte dovrà pur finire dopo la nostra dipartita. Ed ecco che si trasforma in ciò che resta dopo la fine, un tramite che mette in comunicazione il mondo di qua e il mondo di là. Ed è qui forse che si consuma una delle più grandi differenze tra lo Sclavi di allora e lo Sclavi di oggi. Se prima la Morte veniva mostrata come una divinità che si limitava a fare il suo sporco lavoro (che qualcuno doveva pur fare) cercando di non annoiarsi, stavolta la morte (con la lettera minuscola) sembra solo un momento di passaggio e ci si interroga su cosa ci sia dopo, se il nulla o una presenza incorporea, esattamente come avevamo visto in Dopo un lungo Silenzio e Nel Mistero. Argomenti consueti in forme nuove dunque, comuni sia al Tiz vecchio che al Tiz di oggi, minimale e diretto.
Esattamente come Werther Dell’Edera, un maestro nell’importantissima arte di sintonizzarsi con la sensibilità del suo sceneggiatore, che ne Le voci dell’acqua traduce perfettamente in immagini la scrittura dello Sclavi moderno. Le linee a cascata del suo pennino, coadiuvate da un sapiente bianco e nero, ricordano molto a livello visivo il precipitare della pioggia sul mondo, effetto che si sposa perfettamente con lo stile della scrittura senza sopraffarla. Una simbiosi stupefacente che si mostra per quello che è: l’unione di due talenti, antichi e nuovi, che raccontano attraverso un’unica voce.
Stay Nerd consiglia…
Recuperate Nel Mistero, ultima prova dylaniata di Sclavi e che ha molti punti in comune con Le voci dell’acqua. Altrimenti, se volete approfondire la vita di Tiziano Sclavi leggete “Tiziano Sclavi, il narratore dell’incubo“.